“Diego mi chiede se in questo momento sei in Sicilia e se hai qualcosa per le mani da raccontare”. Quando, ad aprile 2020, una ragazza della redazione di Propaganda Live mi contattò per riferirmi un messaggio di Diego Bianchi, risposi che mi stavo occupando di Cassibile e che forse avevo una cosa da proporre. Ho conosciuto Diego a gennaio del 2019, quando ho collaborato con lui per un servizio sulla vicenda della Sea Watch, la nave dell’omonima Ong che aveva salvato un gruppo di naufraghi e che, dopo aver chiesto vanamente per giorni di approdare a Siracusa, a seguito del clamore suscitato dalla vicenda, venne fatta sbarcare presso il porto di Catania. In quell’occasione, nei giorni trascorsi insieme a Siracusa, avevo parlato con lui anche di un prete, di quel padre Carlo D’Antoni che da quasi 30 anni accoglie nella sua chiesa di periferia migranti e poveri di strada. “Un portone aperto sulla strada”, così padre Carlo definì la sua parrocchia e la sua idea di chiesa nella prima intervista che mi rilasciò tanti anni fa, quando ancora non lo conoscevo e non avevo l’onore della sua amicizia. Raccontai a Diego di quella parrocchia, di come, in tutti questi anni, sono passate da lì circa 30mila persone, accolte, curate, assistite, informate dei propri diritti e aiutate a riprendere il loro cammino, in piedi e con la schiena dritta.

Gli parlai anche di quello che faceva per i braccianti di Cassibile. Del fatto che padre Carlo è l’unico, e ripeto l’unico, che tutti i giorni, da oltre 15 anni, si reca a Cassibile per aiutare i braccianti. Cerca di sapere come stanno, se hanno bisogno di qualcosa. Tra i braccianti, che sono in grandissima parte regolari, vi sono anche quelli che rischiano di diventare irregolari o che lo sono appena diventati per mancanza di assistenza o perché non sono informati pienamente sui loro diritti. Vi sono anche tanti che perdono i documenti in campagna, dove lavorano o nelle baraccopoli in cui dormono oppure possiedono documenti rovinati e cancellati da umidità e pioggia. E a volte anche la possibilità di ottenere un duplicato sembra un ostacolo enorme da superare. Padre Carlo rintraccia queste situazioni, avvisa le associazioni o lui direttamente si occupa di andare all’ufficio immigrazione della questura per chiedere informazioni o per accompagnare i migranti in modo che possano sbrigare le questioni burocratiche.

Il sacerdote che odia essere definito “prete di frontiera” (“Non mi piace, perché è un’etichetta che certifica una anomalia, come se fosse una anormalità, ma io sono un prete e questa è o dovrebbe essere la normalità, non fare nulla sarebbe anormale”), oltre a questo, si impegna a portare cibo, coperte, vettovaglie, brandine, tende e tutto quello che serve per tamponare la situazione. Lo fa grazie all’aiuto di fedeli e realtà sociali. Anche altri, a Cassibile, ci sono stati in questi anni. Associazioni, ong anche non italiane, come la tedesca Seehilfe, semplici cittadini, anche sindacati come la Flai o l’Usb, i cavalieri di Malta, e così via. Tutti hanno portato cibo, coperte, beni di sussistenza, anche mascherine vista l’epoca di Covid. Impegni utili, ma sporadici, non quotidiani, ed è in questo che sta la unicità dell’opera di padre Carlo. Tutte le azioni di “carità”, inoltre, pur essendo utili, non risolvono il problema. Arci ha dato assistenza burocratica, ma non a sufficienza, perché a Cassibile bisogna andarci ogni giorno, bisogna entrare nel campo, non aspettare che qualcuno ti chiami e segnali un caso, né sperare che i braccianti possano venirti a trovare in città.

Ogni volta che ho parlato con i braccianti, e ne ho incontrati centinaia negli anni, raramente (per non dire mai) mi è stato detto che avevano incontrato qualcuno che potesse risolvere ii problemi che mi illustravano, mostrandomi documenti, carte, provvedimenti, ecc. Nessuno li aveva informati di un luogo nel quale poter risolvere le loro situazioni, nessuno li aveva cercati. Tutti invece mi confermavano che tante persone portavano cibo, acqua, alimenti vari, qualche medicina da banco per i dolori (ossei e dentali) o per infiammazioni (soprattutto alla pelle), legati al lavoro e alle condizioni di vita. I sindacati? Solo un paio di lavoratori, solo negli ultimi anni peraltro, mi hanno detto che una o due volte la Flai è stata lì e ha parlato con loro in gruppo, informandoli su diritti e possibilità di denuncia qualora avessero voluto. Risultato? Zero. Perché, come mi dicono gli stessi braccianti, qui “nessuno parla davanti agli altri, nessuno in gruppo dirà ‘voglio denunciare’, per paura dei subcaporali e dei caporali” che vivono nel campo con i lavoratori, con le loro vittime. Per il resto, a parte la consegna di cibo e coperte e vestiti, nulla.

Mai un’idea di manifestazione seria, un picchetto davanti alle aziende o al mattino davanti alle operazioni di carico dei caporali. Hanno organizzato solo una grande festa, il Primo Maggio, con musica e comizi, poi la sera i braccianti sono tornati nella loro baraccopoli, e i sindacati a casa, ad applaudirsi per la bella iniziativa. E vi garantisco che questa storia del Primo Maggio a Cassibile, qualcuno di loro se l’è giocata e appuntata come merito durante una conferenza. Ma di questo parleremo meglio nel prossimo capitolo. Sul piano medico, Emergency per un periodo ha fatto qualcosa, Medici Senza Frontiere nel 2006 ha fatto un ottimo intervento, rimasto però isolato, poi la LiLa di Catania più volte è stata a Cassibile a fare informazione medica e controlli gratuiti. Negli ultimi anni, il progetto InterSos ha consentito, soprattutto in epoca di Covid come l’anno scorso, di prestare opera di assistenza e prevenzione. Ma in questi lunghi 17 anni, generalmente, c’è stato ben poco. Le condizioni dei braccianti, d’altra parte, sono sotto gli occhi di tutti. Non tanto sul piano sanitario o di presunti rischi epidemiologici, perché i problemi dei braccianti sono collegati soprattutto alla durezza del lavoro e alle condizioni in cui sono costretti a lavorare e a vivere, quanto sul piano generale della tutela dei diritti e della dignità.

Basta poco per misurare la qualità e l’impegno degli attori coinvolti. Nessuno oserebbe mai di prendersi il merito di qualcosa, davanti a qualche centinaio di lavoratori costretti a vivere in mezzo alla campagna, dentro casupole diroccate o dentro capanne di lamiera e plastica, e a lavorare senza alcun diritto, sfruttati, vessati, trattati come schiavi e per di più osteggiati da una parte della popolazione locale. Nessuno oserebbe mai rivendicare qualcosa e ribattere a questa realtà dicendo di aver fatto tanto per cambiarla o precisando di non potersi rimproverarsi nulla. Nessuno, in un Paese normale e in una città normale lo farebbe. Ma a Siracusa, si sa, tutto è possibile. Torniamo allora nuovamente a maggio 2020. Fino a quel momento il mio rapporto con associazioni, Comune e sindacati era formale, cordiale, perché si cercava di collaborare a una soluzione e alla realizzazione del piano proposto a sindaco e vicesindaco a luglio 2018. Certo, il punto di vista era differente e critico rispetto ad alcuni comportamenti e proposte. In quei giorni, dopo la chiamata della redazione, avevo fatto sapere a Diego di quel prete che avremmo dovuto incontrare insieme e che poi, per motivi di tempo, durante il periodo della Sea Watch, non sono riuscito a presentargli.

Gli ho parlato di nuovo del suo impegno, soprattutto a sostegno dei braccianti sfruttati a Cassibile, che vivevano nella baraccopoli, isolati da tutti, in un periodo reso ancor più complesso dal Covid. Diego era interessato a conoscere questa storia e così mi diede l’ok. Dovevo raccontare di quel prete che, invece di starsene in chiesa, passava i suoi giorni a fare avanti e indietro fino a Cassibile, tendendo la sua mano al prossimo, agli ultimi, ai lavoratori sfruttati, ai dimenticati. Quello era il senso, anche piuttosto evidente, del servizio andato in onda la sera del primo maggio 2020 (data non casuale), su Propaganda Live. Un servizio nel quale si mostrava la realtà nuda e cruda, si lasciava spazio alle parole dei braccianti, alle immagini, alla denuncia di padre Carlo, basata su quella realtà che lui conosce meglio di molti altri. E la conosce perché la vive e frequenta quotidianamente, a differenza di qualcun altro. La sua costante opera di denuncia avviene sempre con l’amarezza di chi sa che non riesce a fare abbastanza, con la rabbia di chi da anni chiede aiuto, chiede assunzione di responsabilità a sindacati, organizzazioni padronali, Comune, prefettura, chiede coraggio politico, chiede una presenza massiccia, costante, quotidiana del mondo del volontariato.

Tutte cose che non ci sono e non ci sono mai state, se non sporadicamente. In quel servizio, seguivo padre Carlo in uno dei suoi pomeriggi tipici del periodo primaverile, fatti di viaggi a Cassibile, di viveri da portare, di richieste da ascoltare, di semplice solidarietà e vicinanza. Ma non è quello il senso profondo della sua azione, poiché padre Carlo rifiuta il concetto di carità dietro il quale tanti altri nascondono le loro mancanze. Lui è arrabbiato, perché non è il cibo ciò che serve realmente. Qualche bracciante me lo conferma, me lo sussurra, fuori dalle telecamere: un ragazzo marocchino che vive in Italia da 15 anni e che non vuole essere registrato perché teme che la moglie e la figlia, ignare delle sue condizioni di lavoro e vita a Cassibile, potrebbero riconoscerlo: “Ringraziamo per questi viveri, ma non è tanto di questo che abbiamo bisogno. Abbiamo bisogno di un alloggio dignitoso, di diritti”. E ha ragione. Per questo padre Carlo non è mai contento quando parla di Cassibile, non si sente a posto con la coscienza o meritevole di elogi. Non li ha mai cercati né mai gli è importato. La sua vita, le sue lotte, tutto ciò che ha pagato per i suoi ideali di giustizia, lo dimostrano. Senza timore di smentita.

Per questo, pur riconoscendo, come ha fatto in quell’intervista video, il fatto che in quel momento ci fossero almeno dei bagni chimici, i cassonetti per l’immondizia e la luce e l’acqua, affermava che si trattava di una situazione emergenziale e che questo era comunque un ghetto, un modo per evitare contatti con la popolazione locale che aveva già iniziato a protestare. Una cosa alla quale il Sindaco di fatto si era prestato, esprimendo in sintesi questo concetto: vi porto lì ciò che vi serve, purché non ve ne andiate in giro ché qui si incazzano e rischiate. Concretezza? Forse. Ma forse anche cinismo o peggio resa. Detto questo, a maggior ragione, davanti a un servizio che mostrava voci e immagini reali di una condizione che si ripete da quasi venti anni, sarebbe stato davvero ottuso pensare di pretendere dei riconoscimenti di merito. Eppure c’è chi lo ha fatto, perché ne sentiva il bisogno. Il bisogno di sentirsi citare e applaudire. C’è chi si è sentito attaccato pur non essendo stato nemmeno sfiorato dalla discussione. Attenzione: non è solo questione di ego, di voglia di apparire, soprattutto in tv e in una trasmissione molto seguita e amata.

No, c’è anche dell’altro. C’è di più, c’è la compattezza, l’essere parte di un sistema fatto di amicizie, frequentazioni lunghe, coesioni di parte. Che sono anche comprensibili in una città come Siracusa, soprattutto a sinistra e in una città che per decenni è stata sempre in gran parte democristiana, moderata o destrorsa. L’emersione di una forma di sinistra, civica, sociale e di pensiero, ha coagulato queste forze, almeno nella forma, un po’ meno nella sostanza.

Una parte di questa forma è divenuta fluida, si è mutata in un ruscello pulito che aveva però bisogno di recinti, argini, girotondi e circoli ristretti. Sono le cosiddette caste bianche. Accolite di brave persone, anche intelligenti, dotate di umanità, ma tremendamente autoreferenziali, frustrate dal dover lavorare senza una potenziale ribalta. Sono i vizi della provincia, il segno di quella voglia di emergere, di quel timore nevrotico di non vedere riconosciuto il proprio lavoro. Sentimenti che spesso portano a travalicare i limiti del ridicolo. Così, dopo quel servizio nel quale si raccontava la giornata di un uomo di chiesa della periferia di Siracusa tra le strade e le campagne polverose di un’altra periferia, opposta, come Cassibile, dove una parrocchia c’è ma non ritiene necessario occuparsi degli sfruttati, le caste bianche hanno iniziato ad agitarsi e ululare. Eppure nessuno aveva toccato le associazioni, nessuno le aveva citate, non erano pertinenti al racconto. Quello che era importante era far vedere la realtà, dare voce ai braccianti, mostrare le condizioni penose alle quali vengono costretti dei lavoratori nel 2021, alle porte di una città che si definisce “per i diritti umani” e dentro un Paese che si professa civile. Una condizione nota a tutti, ma che evidentemente non tocca abbastanza la sensibilità di chi dovrebbe occuparsene giorno e notte, soffrendo, mostrando compassione nel senso filosofico del termine, vale a dire condividendo la sofferenza dell’altro.

Ma a qualcuno questo non è piaciuto, e ci può anche stare, perché un articolo o un servizio possono non piacere, per mille motivi: si può non apprezzarli tecnicamente, non apprezzarne il taglio, trovarli poco interessanti, non amarne lo stile, la scrittura, il montaggio, e così via. Nulla di tutto questo. Alle caste bianche non è piaciuto per altre ragioni. Si sono sentite toccate e hanno reagito nervosamente. La verità. alle volte, fa un po’ male. Disturba. Così, davanti a un racconto rispetto a cui qualsiasi ente sociale, associazione, comitato che abbia davvero a cuore i diritti dei migranti, dei braccianti, dei lavoratori, avrebbe dovuto inserirsi per chiedere giustizia, le caste bianche hanno invece preferito attaccare il giornalista e il sacerdote, minimizzando così anche la voce dei due braccianti. L’accusa mossa è quella di “parzialità”, ossia la peggiore accusa che si possa fare a un giornalista. L’Arci di Siracusa mi ha accusato di avere raccontato il falso. In un comunicato stampa (addirittura!) pubblicato due giorni dopo la trasmissione, si faceva prima l’autoelogio del grande impegno dell’Arci nell’assistenza legale e di informazione sanitaria (senza citare alcun numero, che sarebbe stato utile, visto che questo grande sforzo non risulta alla maggior parte dei braccianti presenti a Cassibile) e nella distribuzione di viveri e anche nella preparazione di cibo caldo specialmente nei giorni di freddo.

Cose che nessuno ha mai negato, ma peraltro cose che altre realtà sociali hanno fatto molto più spesso e senza nessuna esigenza di pubblicità. Anzi, ricordo un episodio del 2019: dopo due giorni di pioggia torrenziale, ero nel campo insieme ai braccianti, in mezzo al fango. Lanciai un appello a istituzioni e volontariato (che erano silenti) perché si facesse qualcosa, dato che era inaccettabile che i lavoratori fossero in mezzo alle campagne, all’addiaccio e inzuppati. In quei due giorni di fango e pioggia, non ho visto nessuno portare aiuto ai braccianti, tranne padre Carlo e un’altra realtà, l’Avcs, che in pochi minuti ha risposto e che in poche ore ha preparato 200 pasti caldi. La sera li ha portati lì, in silenzio, senza proclami, senza comunicati stampa. Ho visto l’ex assessora Alessandra Furnari e l’Avcs quella sera a distribuire piatti caldi. I loro nomi li faccio, anche se so che non vorrebbero, perché certe cose le hanno fatte spesso e in silenzio. E lo dico da persona che politicamente è lontanissima dal partito di riferimento dell’ex assessora. Ma continuiamo con la nota dell’Arci. Si parlava anche dell’emendamento al bilancio regionale fatto dall’on. Claudio Fava per stanziare 500 mila euro per l’accoglienza e la lotta al caporalato a Cassibile.

Peccato che l’Arci non sapesse che quell’atto Claudio Fava lo ha fatto il giorno dopo aver saputo della situazione di Cassibile in un webinar in cui ero stato invitato a parlare della baraccopoli. In quel webinar’ c’era anche Roberto Alosi, segretario della Cgil Siracusa, con il quale polemizzammo ma con toni assolutamente civili. Fu in quel dibattito che Fava promise che il giorno dopo avrebbe fatto quell’emendamento. Promessa mantenuta. Ma non avrebbe dovuto pensarci, nei mesi precedenti, il Comune a sollecitare la Regione? Non avrebbero dovuto pensarci quelle forze politiche che dicono di combattere per gli ultimi e che l’Arci sembra appoggiare? Allora andiamo al nocciolo del comunicato Arci del 3 maggio 2020. Ne riporto alcuni passaggi fondamentali: “Della tendopoli di Cassibile si è occupato il programma televisivo de La7 “Propaganda Live” nella puntata di venerdì 1°maggio, e ci è dispiaciuto constatare che il servizio trasmesso, realizzato dal giornalista siracusano Massimiliano Perna, abbia fornito un quadro parziale della situazione. Vero è il grave contesto di degrado in cui versa la tendopoli; non corrisponde al vero, invece, che ciò avvenga in un deserto umano e sociale di generale indifferenza. Ci dispiace che nel servizio non sia stato fatto il minimo accenno all’impegno civile di tanti volontari e volontarie che da anni praticano concretamente la solidarietà nei confronti dei lavoratori stranieri, accreditando l’idea che a occuparsi di loro a Cassibile con sincero spirito solidale sia soltanto il parroco di Bosco Minniti, Carlo D’Antoni, il cui impegno noi di sicuro riconosciamo“.

Inutile ripetere che non vi fosse alcun riferimento alle associazioni, semplicemente perché non si parlava di loro, ma dell’opera di un prete e dell’isolamento dei braccianti rispetto ai cittadini di Cassibile. Tuttavia non è questo il punto focale. Andiamo avanti con il comunicato. “Non siamo però d’accordo con lui quando afferma – come nell’intervista per Propaganda Live – che l’amministrazione comunale ha approntato alcuni servizi nel campo di Cassibile esclusivamente per tenere gli stranieri lontano dal centro abitato, senza alcun sentimento di vicinanza a quelle persone. Come se portare nella tendopoli acqua e luce e garantire la raccolta dei rifiuti non fossero di per sé azioni importanti e doverose, a prescindere dall’emergenza covid 19. Del resto il servizio televisivo non ha ritenuto di dare alcuna informazione sul progetto di realizzare a Cassibile un vero campo di accoglienza, dotato di moduli abitativi e di servizi igienici, che il Comune ha avviato con la collaborazione di alcune associazioni, tra le quali l’Arci di Siracusa, individuate tramite una pubblica manifestazione di interesse“. Un anno dopo, alla luce dello stato attuale delle cose, provo quasi tenerezza per questo comunicato e per il suo contenuto infantile. Dicono che avrei dovuto citare il campo di accoglienza, qualcosa di cui, nel servizio, non si poteva parlare, perché di fatto non esisteva, oltre a essere un’ipotesi avanzata nel famoso piano presentato al Comune (ne abbiamo parlato nei capitoli precedenti) e annacquato nei famosi tavoli, tra ostacoli, chiacchiere, ignavia.

Parlare di qualcosa che non esiste e che si sapeva non si sarebbe realizzata, davanti a una realtà che esiste e produce ingiustizia quotidiana sarebbe stato parziale e falso. Peraltro se c’erano dei moduli abitativi e un’ipotesi di piano non si doveva certo all’Arci, forse non molto informata sui vari passaggi della vicenda. Ultima cosa, la più importante: un’associazione che dovrebbe essere apartitica e indipendente si lamenta di un’affermazione critica di padre Carlo non su di loro ma sul Comune e dunque su una istituzione politica. Strano? No, affatto, anzi perfettamente coerente con le caste bianche, che da ambientalisti a giornalisti, da uomini di satira ad attiviste e attivisti, hanno rilanciato energicamente quel comunicato contro un servizio televisivo che raccontava una realtà tangibile. Hanno fatto squadra, esprimendo solidarietà a sé stessi. Hanno scelto la difesa di parte, invece di un maturo silenzio (il sindacato in questo è stato molto più furbo). Hanno scelto di rivendicare il loro merito davanti alla melma e al fango della baraccopoli. Hanno rivendicato il loro ruolo. Lo hanno fatto per sentirsi buoni, perfetti, infallibili.

Mentre, da una parte, c’è chi sente il dolore per una situazione inaccettabile, per ogni giorno che i braccianti trascorrono in quelle condizioni inumane, altri ritengono più importante difendere la loro posizione, con questo peraltro facendo una pessima figura. Perché nessuno li aveva tirati in ballo. Il Comune sì invece, ma il Comune con loro cosa c’entra? Perché una associazione indipendente si preoccupa di fare da avvocato difensore di una Giunta? E qui nasce il problema. Tutto sta in quel concetto di caste bianche di cui parlavo. Il Comune ha in giunta una assessora, Rita Gentile, che ha preso in carico la questione Cassibile. Rita Gentile viene dal mondo delle associazioni ed era stata eletta al Consiglio comunale. Quando è stata nominata assessora, la consigliera che ha preso il suo posto è Simona Cascio, che da anni è il volto di Arci Siracusa. Entrambe fanno parte di Lealtà e Condivisione, movimento politico che raccoglie la cosiddetta società civile e il movimentismo siracusano di sinistra. Toccare il Comune, osare di criticare la gestione di un problema rimasto vergognosamente irrisolto, che poi sarebbe sfociato pure in uno sgombero promesso ed eseguito dal sindaco su pressione dei capipopolo di Cassibile, significa indirettamente criticare l’assessore designato a gestire quel problema e a trovare le relative soluzioni.

Quindi, per l’indipendente Arci significa peccare di lesa maestà nei confronti di associazioni, intellettuali, “borghesia sociale” di questa città. I buoni, che poi buoni sono davvero a livello personale, avendo anche storie e vissuti apprezzabili, di impegno e umanità, ma che purtroppo peccano di tracotanza e soprattutto si indignano sì, ma fino a un certo punto. Mi sono permesso, davanti al loro ridicolo comunicato stampa, di rivendicare la mia libertà davanti alle loro gravi accuse. La libertà di averci sempre messo la faccia, il corpo e i rischi. Di aver fatto il mio mestiere. Da solo, quasi sempre gratis, regalando le mie inchieste, senza mai avere caste a proteggermi, anzi. Ho rivendicato la libertà di non dovere niente a nessuno, di non aver fatto carriera politica né di avere mai lavorato in progetti con i migranti o gestito strutture, centri, ecc, come hanno fatto altri. Per carità, tutte cose legittime, che non giudico minimamente, cose che anzi spesso hanno significato anche aiutare tante persone, spendersi sul territorio, riuscire a tutelare diritti, svolgere un lavoro utile. Ma a volte queste cose impediscono di essere sinceri e liberi. E ne ho avuto contezza in un paio di occasioni, quando si è scelto di essere troppo timidi davanti a prefetti e viceprefetti, a causa dei rapporti anche professionali che si sono creati con queste istituzioni.

E ne ho contezza anche ogni volta si continua a pensare più alle bandierine da mettere su un tema che a combattere la miseria di vivere anche un solo giorno dentro una baraccopoli. O quando ci si continua a sentire a posto con la coscienza e, invece di fare ancora di più e pretendere il massimo dalle istituzioni, anche criticando chi ti è amico nella vita, si perde tempo a scrivere comunicati e a farsi fare il coro dagli amici di sempre, quelli che fanno tanto gli alfieri del diritto e della borghesia intellettuale della città e poi a Cassibile, dentro una baracca, non ci hanno mai messo piede. Ho avuto contezza anche della loro frustrazione infantile, quando hanno invaso il mio profilo whatsapp di messaggi acidi e insistenti, per rinfacciarmi la mia colpa di non averli citati in tv. Era tutto quello il problema per alcuni di loro, non la voce che i braccianti hanno fatto arrivare a Roma. Addirittura hanno chiesto a Propaganda Live di poter replicare per raccontare la loro verità, senza rendersi conto che, al di fuori delle loro caste, dentro le quali si coccolano, il senso del ridicolo e il provincialismo si percepiscono molto più nettamente.

Questo è lo spessore delle lotte sociali della mia città, lotte nelle quali le priorità divengono personali e private e non collettive. Questi gruppi molti li definiscono radical chic, io preferisco chiamarli caste bianche. Pulite nell’anima, ma meno nella coscienza. Ferme e decise nel togliere il saluto (cosa di cui riesco a farmene una ragione, sopravvivendo e dormendo ugualmente), ma morbide e melliflue davanti a un Comune “amico” che oggi ha a disposizione centinaia di migliaia di euro stanziati per Cassibile e l’unica cosa che sa fare è dire che la soluzione è difficile e che devono collaborare anche i comuni vicini. Ma di questo parleremo nel prossimo capitolo. Il penultimo di questa saga della vergogna, dell’ipocrisia, dell’ignavia e dell’ingiustizia.

Ci vediamo martedì 9 marzo alle ore 19.30 con l’undicesimo e penultimo capitolo. A presto.

MP