La pandemia e la crisi sanitaria che ne è seguita, la crisi sociale, economica, culturale e ambientale che affliggono il Pianeta e, in particolare, il nostro Paese, hanno indotto Libera Bologna e Libera Informazione a produrre, agli inizi del 2021, un dossier pubblicato all’interno della collana R.I.G.A.  – Report e Inchieste di Giornalismo Antimafia: dossier e tasselli per creare un quadro complessivo del fenomeno mafioso a Bologna, dove la consapevolezza del radicamento mafioso esistente è ancora limitata. L’allarme più preoccupante degli ultimi due anni è dato dagli interessi criminali rivolti al comparto socio-sanitario, che durante la pandemia ha svolto un ruolo centrale.

“Sto coronavirus è proprio un buon affare”, afferma Salvatore Emolo, intercettato dalle forze dell’ordine e affiliato al clan camorristico dei Di Lauro. La partita del recovery fund, che si gioca a livello europeo sul piano politico, a livello nazionale sarà cruciale per stabilire i destini del nostro Paese nella concreta applicazione. Molto della buona riuscita, in ogni piano di impiego delle risorse previste, dovrà tenere conto dell’attacco criminale che i clan tenteranno per fruirne col fine di guadagni illeciti. Lo Stato dovrà essere attento, vigile e duro verso le cosche mafiose e sensibile verso i cittadini onesti, cercando di dirimere e appianare quei conflitti sociali che, durante la pandemia, si sono esacerbati.

“Lo Stato dia come diritto ciò che la mafia dà come favore”, diceva Carlo Alberto Dalla Chiesa. Mafie e rigurgiti fascisti sono le manifestazioni a cui lo Stato e il mondo educativo devono porre attenzione, così da contrastarle. “Era il 1989 – scrive Lorenzo Frigerio, di Libera – quando Francesco De Gregori, nella sua ‘Bambini venite parvulos’, con disincanto e malcelata ironia cantava ‘legalizzare la mafia sarà la regola del duemila’”. Quella presente in Emilia Romagna (e non solo) è una mafia moderna. Prendiamo, ad esempio, la ‘ndrangheta al centro di Aemilia, il più grande processo contro le mafie del Nord Italia che, insieme ai suoi filoni, si sta celebrando da cinque anni nei tribunali di Reggio Emilia, Bologna e Modena.

L’inchiesta, coordinata dalla Direzione Distrettuale Antimafia di Bologna, ha portato all’arresto di 160 persone, di cui 117 solo in Emilia Romagna. Al centro dell’inchiesta la ‘ndrangheta al Nord, con la ‘ndrina dei Grande Aracri di Cutro. La ‘ndrangheta, come cellula autonoma trapiantata in Emilia, inizia a proliferare tra Piacenza e Reggio Emilia a partire dai primi anni Ottanta, per poi allargarsi in altre città emiliano romagnole, venete e lombarde. In questa inchiesta vengono coinvolti forze di polizia, funzionari e dirigenti della Pubblica Amministrazione, giornalisti, liberi professionisti, imprenditori, costruttori, consulenti fiscali. Lo strumento utilizzato dalle cosche è il mimetismo, cioè la silente capacità di infiltrarsi ovunque, che però lascia sempre delle “tracce”.

Per capire cosa stia accadendo a Reggio Emilia nel dopo Aemilia bisogna assolutamente cogliere quei segni mimetizzati: in primis i flussi di denaro, derivati dall’usura, dalle estorsioni, dagli appalti pubblici, dallo smaltimento dei rifiuti, dal narcotraffico, dal caporalato, dall’intestazione fittizia di beni, dai falsi in bilancio, dalle turbative d’asta, dal commercio e detenzione illegale di armi, attraverso quella forma associativa che l’articolo 416 bis del codice penale chiama “associazione a delinquere di stampo mafioso”. In Emilia Romagna la fa da padrone la ‘ndrangheta, seguita da cosa nostra, dalla camorra, dalle mafie pugliesi e da quelle nigeriane.

Grazie ad alcuni collaboratori di giustizia si è arrivati a diverse condanne. I collaboratori sono serviti anche per la ricostruzione storica dell’affermarsi in Emilia del corpo di società facente capo a Nicolino Grande Aracri e per comprendere i legami tra la ‘ndrina di Reggio Emilia e gli imprenditori che ragionano alla cutrese. Nel dossier citato è presente l’approfondimento di un’altra crisi: quella ambientale, con un’analisi di casi specifici sul territorio emiliano – dalla ricostruzione post terremoto all’inchiesta sulla commercializzazione, da parte della ‘ndrangheta, di ghiaia e sabbia del Po – e un ragionamento sulla crisi climatica e sul legame tra giustizia sociale e giustizia ambientale.

Il dossier chiude con un capitolo sui modelli per una ripartenza giusta, come le fabbriche recuperate dai lavoratori e dalle lavoratrici. Modelli positivi che ci danno l’idea di una battaglia da portare avanti, a partire dal basso, dal cittadino libero e lavoratore onesto, che tiene conto del rispetto dei diritti umani, dell’ambiente e del territorio in cui viviamo. Un territorio che appartiene a tutti e non alle mafie. “Pensiamo alle mafie – scrive Sofia Nardacchione – non solo nella loro derivazione criminale, ma anche in quella che colpisce tutte e tutti: sporcando l’economia legale, creando meccanismi di estorsione e corruzione, estorcendo il sistema democratico, dando una scelta in più che altro non è che l’eliminazione della scelta, ampliando la forbice delle disuguaglianze e aumentando la povertà, economica, sociale e culturale”.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org