Ha la voce da bambina, gli occhi colmi di stupore, lo sguardo dolcissimo e, a tratti, indifeso. La sua fisicità trasmette purezza, intelligenza, gentilezza, tenero dolore. Ma il dolore può essere tenero? Ascoltando e guardando Chandra Livia Candiani sembra proprio di sì. Forse perché, come scriveva Ernst Jünger, “nel dolore esiste una speranza più grande che in una felicità regalata”. Chandra Candiani è una delle migliori poetesse del nostro Paese, una donna che riesce ancora a stupirsi, a meravigliarsi, poiché “una buona pratica preliminare di qualunque altra è la pratica della meraviglia. Esercitarsi a non sapere e a meravigliarsi”.

Nasce a Milano nel 1952 da madre russa, di San Pietroburgo. Nasce in una “famiglia di pazzi, in senso tecnico e non per modo di dire”, in una famiglia carica di dolore, sofferenze e violenza. Vive un’infanzia molto particolare, con persone che avevano un linguaggio di cui lei, bambina, non aveva le mappe, impara a conoscere il dolore degli altri e a decifrarlo, a reggerlo. Si prende cura della madre e della sorella fino a quando non comprende che lei stessa ha bisogno di cura, che è arrivato il momento di prendersi cura di sé, con lo stesso atteggiamento che aveva avuto verso i suoi familiari. Si avvicina al mondo della psicanalisi, conosce l’India e la meditazione, entra in contatto con il Buddhismo e, nel 1986, assume il nome di Chandra, che in sanscrito significa luna, datole dal suo primo maestro, Rajneesh.

Legata alla natura, agli animali, agli alberi delle foreste, ai bambini e alle bambine. Da molti anni, oltre a collaborare con il canale video tematico “The Psychiatry on line Italia Videochannel”, gira le scuole a diffondere la poesia: le sue poesie e quelle dei suoi poeti e poetesse preferiti. Poesie con un linguaggio fulminante, perché i bambini non hanno solo bisogno di filastrocche, che sicuramente, afferma lei, hanno ritmo e musicalità, ma che non bastano. Non bastano, soprattutto ai bambini, che hanno la necessità di parole vere, di parole vive, di “parole scatole” capaci di contenere immagini, fantasie, detti nuovi, sensazioni, dolori, paure. Quando diffonde la poesia nelle scuole non recita le sue ma, attraverso di lei e dei poeti che ama, scrive insieme ai bambini, facendoli diventare protagonisti e attori e non solo spettatori di parole lette o dette da altri.

“Non leggo, faccio scrivere”, dice spesso. Un bambino, una volta ha chiesto se fosse vera e la maestra ha risposto di sì, che si trattava di una vera poetessa; non aveva capito, la maestra, che il bambino non aveva domandato questo, ma che dietro quella domanda c’era tutta la meraviglia di trovarsi di fronte una “persona” vera, viva, che pronunciava parole che cascavano dal cielo come fulmini. Chandra Candiani, in un’intervista a Olivier Turquet, che provocatoriamente le diceva che la poesia è la più inutile delle arti ma, assolutamente necessaria, rispondeva così: “Guarda, tocchi un tasto… Io mi sono sentita per anni in colpa di scrivere poesie, di dedicare il tempo al vuoto, anziché avere opinioni nette, capacità di prendere posizioni decise, essere nella realtà. Negli anni della mia giovinezza, la nozione di realtà era così ristretta e soffocante. Ora direi: ‘Quale realtà?’, perché finalmente sappiamo che le realtà sono così tante e così contemporanee e ormai ci imbattiamo in tante realtà, sempre di più. Per fortuna”.

Questa donna, che si è sporcata le mani con la sofferenza, ha anche imparato il valore della compassione. Perché la compassione, così come la gentilezza, si può imparare e si impara stando con la propria crudeltà, con l’indifferenza, sentendola, contemplandola e rinunciando a compierla. Non si negano i sentimenti negativi, anzi, bisogna percepirne il peso, il sapore, il restringimento dello spazio della coscienza. Avere consapevolezza di tutto questo è il primo passo verso la compassione; facendosi “spazzini del cuore, anziché arredatori di luoghi non visitati, con lo sporco nascosto sotto un impeccabile tappeto”.

Credersi buoni è pericoloso. “Solo conoscendo la propria capacità di nuocere – scrive nel suo Questo immenso non sapere – e addestrarsi a non esercitarla, può fare accedere alla bontà fondamentale, o intelligenza del cuore”. Quella intelligenza del cuore che riesce a tirar fuori dai bambini che hanno il privilegio di conoscerla e di frequentare i suoi seminari di Poesia, bambini che scrivono, che cercano parole nuove, spesso provenienti da paesi diversi dal nostro, che non conoscono la nostra lingua ma che sono capaci di elaborare parole fulminanti, come quelle di una bambina rom che ha scritto: “Le mani che scrivono le poesie sono le stesse che fanno le pulizie”.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org