La Sicilia è un’isola che attrae e seduce. Da ogni parte del mondo giungono visitatori desiderosi di ammirare la bellezza inestimabile della terra di Colapesce. La ragione di questa forza attrattiva è riassumibile in tre elementi che attraversano i pensieri di chi decide di visitarla: la natura (il mare, le zone verdi, l’Etna), la cultura (l’inestimabile patrimonio storico, artistico, archeologico della Sicilia) e la tradizione enogastronomica (la celebre cucina, la pasticceria, i vini e i liquori tipici). Una forza che è superiore perfino ai tanti problemi, ai rifiuti, ai disservizi, alla carenza di infrastrutture viarie e ferroviarie, all’insufficienza di collegamenti e di trasporti adeguati che possano mettere in comunicazione le province, incluse le isole minori. Basterebbe partire da questo per rendersi conto che la sola strada che la Sicilia ha, è quella di promuovere la sua bellezza. A 360 gradi.

Attenzione, però, bisogna capirsi bene sul significato della parola “promuovere” e su ciò che richiede. Perché, di solito, in questa terra incantevole, troppo spesso guidata da classi dirigenti miserabili, si è scelta l’accezione peggiore, quella della svendita, del sottocosto da infimo discount. La storia siciliana è piena di esempi, quella recente forse lo è ancora di più. Prendiamo la meravigliosa Scala dei Turchi, ad esempio. Dopo essere stata a lungo macchiata da un ecomostro costruito sul suo mare e dopo essersi trovata sotto la minaccia di un progetto di un resort di lusso su una falesia a rischio erosione, oggi è ancora nel mirino, a causa di una privatizzazione che sulle coste siciliane ha creato disastri ovunque. Come quello della Pillirina, antica e suggestiva area naturale di Siracusa, sottoposta ai dispetti di un personaggio grottesco, residuo di una nobiltà che pensa di riportare indietro le lancette della storia.

Un uomo che, con tono acidulo e arrogante, difende la sua scelta di trasformare un luogo di natura in un altro per abitazioni civili, in nome di una proprietà privata che ricade dentro una zona per la quale la prevista istituzione della riserva terrestre è ferma per un cavillo burocratico, frutto di una precisa volontà politica. Stesso discorso vale anche per il parco degli Iblei, la cui istituzione (per la quale, dopo tutti i passaggi completati, si attende solo la formalizzazione da parte del ministero competente) permetterebbe di fermare progetti speculativi e soprattutto gli incendi, che alle possibili speculazioni sono in qualche modo collegati. Tutto fermo, per l’opposizione insensata e tardiva di sette sindaci, che accampano la scusa della concertazione con le realtà produttive interessate all’area che dovrebbe rientrare nella tutela. Il punto è sempre lo stesso. Questa isola deve difendersi dai predoni esterni e interni, ma prima di tutto da chi la amministra, a ogni livello, e che quasi sempre risponde a interessi di varia natura e di varia provenienza.

La Sicilia è una terra da sempre oggetto di mire predatorie, di progetti nazionali, internazionali, locali che vogliono rosicchiare a turno la sua pelle, per farne brandelli dopo essersi saziati lo stomaco. Dalle società di ricerca di idrocarburi, che volevano e vorrebbero ancora trivellare aree sottoposte a vincolo, a quelle che volevano costruire mega-discariche sopra i siti preistorici e sopra gli agrumeti, oppure quelle che vogliono speculare con impianti di fotovoltaico mastodontici e privi di regole per stravolgere intere porzioni ed economie di territorio. Per non parlare di chi vuole riempire l’isola di termovalorizzatori, in modo da bruciare le mancanze della politica ed esaltare gli interessi mafiosi dentro impianti già antiquati e altamente tossici. Tutti possono provarci in Sicilia. C’è chi ci è riuscito tante volte e chi, per fortuna, ha trovato e trova piccole resistenze.

Resistenze civili guardate spesso con fastidio e ostilità da istituzioni, imprese, associazioni di categoria e persino pezzi di magistratura, che si lasciano andare a un uso creativo e farsesco del diritto. Anche il turismo è ormai diventato un piatto da riempire arraffando ogni boccone disponibile, come fosse il buffet di un matrimonio triviale. D’altra parte. è rimasto l’unica speranza di profitto, in una regione che non sa cambiare, che a lungo si è aggrappata al veleno di zone industriali che hanno dato pane per qualche decennio, al prezzo di morti e malati, e che oggi si trovano, come ad esempio il petrolchimico di Siracusa, dentro una crisi che qualcuno, furbescamente, attribuisce alla guerra russo-ucraina, ma che in realtà è molto più profonda, lontana. Affonda nei ritardi atavici della politica e non solo, nell’incapacità generale di programmare una riconversione che oggi è la sola salvezza, l’unica strada possibile.

Il turismo, si diceva, è diventato così la nuova industria, sviluppata con le stesse logiche che invasero con violenza alcune province dell’isola nella seconda metà del secolo scorso. Oggi, turismo non vuol dire promozione della bellezza, nell’accezione della valorizzazione dei luoghi e dei monumenti, nella organizzazione necessaria a renderli fruibili a tutti e al contempo tutelati, protetti dagli effetti della massiccia presenza antropica. No, oggi turismo significa svendere, privatizzare, consumare il suolo e i suoi beni, spremerli il più possibile, senza curarsi del futuro, senza una prospettiva di lungo termine.

La sintesi di questo concetto è perfettamente contenuta nelle parole del sindaco di Siracusa, Francesco Italia, pronunciate una ventina di giorni fa durante un incontro a Confindustria Siracusa, davanti al vicepresidente nazionale degli industriali, Brugnoli: “Vede, caro vicepresidente, questa terra è piena di ricchezze archeologiche e di beni di valore inestimabile. Ma il problema è che qui si pensa più alla conservazione che alla valorizzazione. Qui non si può fare impresa culturale, perché se c’è un bene che può essere valorizzato, arriva la richiesta di affidarlo a una associazione senza scopo di lucro. Ma perché? Perché non possiamo valorizzare un bene, sfruttandone anche le potenzialità economiche e creando occupazione?”. Questo è il pensiero non solo del sindaco di Siracusa ma di tanti altri sindaci e imprenditori che pensano che il solo modo di valorizzare un bene e creare occupazione sia quello di lucrare infischiandosene della salute e dei rischi del bene stesso. 

Come dimostra il caso del teatro greco di Siracusa, la cui roccia antica sconsiglia concerti di qualsiasi genere. Concerti che invece si faranno, malgrado l’allarme degli archeologi. Insomma, questa terra è bellissima, ha un grande fascino, riceve il pregiato status di patrimonio dell’Umanità, ma poi si fa male da sola. Perché ha una classe dirigente e imprenditoriale che non volge lo sguardo al domani. Così facendo, tra deterioramento dei beni e dei luoghi e privatizzazioni, speculazioni e accessi negati, saranno possibili solo due scenari futuri: o non ci sarà più il patrimonio o non ci sarà più tanta umanità che avrà l’opportunità di visitarlo. Ma magari continueremo ugualmente a raccontare nelle trasmissioni tv o a scrivere nei dépliant e nelle guide turistiche che la Sicilia è una terra di mare e dal patrimonio culturale inestimabile. Omettendo con cura i due rispettivi aggettivi: negato e compromesso.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org