Ha ragione Michela Murgia quando afferma che la Repubblica italiana non andrebbe celebrata con una sfilata delle forze armate. Ha ragione ad aggiungere che esiste già una giornata per la celebrazione delle forze militari italiane (il 4 novembre). Ci è voluto un governo di destra, infantilmente legato alla retorica del militarismo e marcatamente affezionato a un certo tipo di linguaggio, per far emergere in maniera evidente la stoltezza di una celebrazione così costruita. Al di là di quelle che sono le spiegazioni e le giustificazioni (poco convincenti) sulle procedure e sui gesti militari, tutto assume una direzione simbolica precisa se a guidare il Paese c’è un governo che appare grottesco nella sua incapacità di condannare il fascismo, Un governo che, in questi pochi mesi, ha già messo in mostra tutto l’armamentario lessicale e concettuale più orrido, dalla sostituzione etnica alle tasse definite “pizzo di Stato”.

Mesi durante i quali è apparso evidente come, dentro le stanze del palazzo di governo, si respiri un’aria di insofferenza per i principi e per i meccanismi di funzionamento della Repubblica e della democrazia. Tutto ciò che è legato ai diritti, alla reciproca cooperazione, al pluralismo, alla pace, alla Costituzione è visto con fastidio. Nella recente parata del 2 giugno, tra ghigni, gesti equivoci e inspiegabili segni di vittoria, tutto ciò è stato perfettamente riassunto nel cerimoniale di ministri, premier e presidente del Senato, volti noti di un’Italia minuscola che si prende la scena per ridisegnare antiche nostalgie, cercando di ottenere una claudicante rivincita su quella Repubblica che nacque grazie al sacrificio di chi liberò il Paese dalla violenza del regime. Un regime rispetto al quale, molti esponenti del governo, non riescono a prendere le distanze.

Fatta questa premessa, però, va ricordato che l’impronta militare, anche se un po’ più sobria e meno imbarazzante, ha sempre caratterizzato la festa del 2 giugno. Ed è qualcosa che, fatta eccezione per quella parte della popolazione etichettata come “antimilitarista” o “pacifista” (in maniera sprezzante, come se ripudiare le armi e la guerra fosse un delitto), non ha prodotto mai particolari rimostranze. Come se questo Paese ritenesse normale identificare la Repubblica prima di tutto con quelle forze deputate alla loro difesa da minacce esterne o interne. Eppure non dovrebbe essere così, perché, anche riconoscendo l’importanza di un corpo militare pronto a servire e difendere lo Stato, va detto che lo spirito di una nazione democratica si fonda prima di tutto sulla costruzione e non sulla difesa. È l’insieme del lavoro dei cittadini, del loro senso civico, il frutto dell’esercizio attivo dei principi tutelati dalla Costituzione, tra i quali peraltro spicca il ripudio della guerra.

Ha ragione Michela Murgia, quando elenca le tante tipologie di persone che dovrebbero sfilare al posto dei militari o davanti a loro. Insegnanti, medici, infermieri, artisti, operai, ricercatori, muratori, operatori delle associazioni di volontariato e di assistenza, netturbini, lavoratrici e lavoratori, cittadine e cittadini che con la loro funzione, il loro senso del dovere, gli atti di solidarietà contribuiscono a mandare avanti il Paese. Dovrebbero sfilare i precari oppure quei lavoratori che, per via di tagli o carenza di risorse, si immolano con turni di lavoro massacranti in nome del proprio senso del dovere, che fa rima con lo spirito di comunità. E ha sempre ragione Michela Murgia quando afferma che dovrebbero sfilare anche i contribuenti più attenti, quelli che pagano le tasse perché credono nella comunità statale, già indebolita e messa in crisi da chi evade o da chi considera i tributi una forma di pizzo. Il punto, però, è proprio questo. Quanto è ancora vivo negli italiani il senso dello Stato? Quanti sono realmente interessati alla celebrazione del 2 giugno?

Pochi, molto pochi. Perché l’Italia si anima soltanto quando una ricorrenza può suscitare emozioni, memoria attiva o, persino, divisioni e contrapposizioni feroci. La nascita della Repubblica, invece, non suscita nulla, la celebrazione di quella vittoria referendaria non è mai riuscita a entrare nelle vene degli italiani, tanto che per un periodo divenne “festa mobile” e fu spostata alla prima domenica di giugno. Inoltre, sin dagli inizi è stata fortemente caratterizzata dall’impronta militare e così fu anche quando venne nuovamente collegata alla data del 2 giugno. La retorica militarista è stata una costante di una celebrazione volata via sempre senza grande rumore o particolari discussioni. Ci voleva un governo di destra-destra, reazionario, rozzo nei concetti, nelle parole e nei gesti dei suoi esponenti per far nascere qualche polemica, che però, in fondo, fa sbadigliare e poco interessa buona parte del Paese. Forse è proprio questo l’elemento peggiore, ossia l’assuefazione popolare a tutto quello che la politica mainstream fa e propone. E la totale indifferenza per la Repubblica e la sua storia.

D’altra parte, siamo il Paese che vede il governo, impettito, celebrare la Repubblica proprio nel periodo in cui lo stesso ne minaccia l’unitarietà, attraverso la lama tagliente dell’autonomia differenziata. Difficile pensare che si possa manifestare interesse per una celebrazione di questo tipo, quando si vive dentro un Paese diseguale, nel quale ad esempio la sanità pubblica è allo sbando, povera di risorse, con personale sottodimensionato e servizi essenziali che sono sempre più demandati alla sanità privata, che al contrario cresce e prolifera. Un Paese nel quale è possibile che la Commissione parlamentare antimafia elegga una presidente (Chiara Colosimo) tacciata di avere rapporti di amicizia con uno dei nemici armati della Repubblica, quel Luigi Ciavardini, terrorista di matrice fascista, condannato a 30 anni per la strage di Bologna del 2 agosto 1980. Un Paese nel quale, malgrado la corruzione e la presenza di quattro mafie, si decide di abbassare i controlli sugli appalti e persino quelli della Corte dei Conti sull’uso dei fondi del PNRR. Un Paese, infine, in cui si continua a far arricchire l’industria di produzione delle armi, il solo comparto industriale italiano che, grazie alla politica, non ha mai conosciuto una crisi.

Insomma, Michela Murgia ha ragione, ma onestamente il problema maggiore è che quella della Repubblica, militari o meno, fascisti o meno, non è mai stata una festa. E difficilmente lo sarà in un futuro prossimo. Semplicemente perché, alla fine della parata e delle polemiche, tra le mani del popolo rimane la quotidianità, con tutti gli ostacoli concreti al pieno ed effettivo sviluppo anche solo dell’idea di Repubblica. Una Repubblica che, da quando è nata, ha dovuto prima di tutto difendersi da chi voleva cancellarla o ridisegnarla con lo spirito vendicativo degli sconfitti. E bisognerebbe ricordare che tra i nemici che hanno popolato la notte infinita della Repubblica, tanti erano schierati, almeno ideologicamente, dalla stessa parte di chi oggi guida il Paese e rivolge un saluto di vittoria alle forze armate. Ma questo, evidentemente, alla maggior parte degli italiani non interessa. Forse interessa solo a chi ha ancora passione per la memoria e per i suoi preziosi avvertimenti.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org