Da qualche settimana i cancelli ed i portoni degli istituti scolastici sono stati riaperti, le classi ed i corridoi non sono più vuoti come negli scorsi mesi, eppure non si può certo dire che agli studenti italiani sia stata riservata una grande accoglienza. Dopo i mesi di improvvisa prigionia, dopo quella bolla temporale che ha inghiottito loro, molto spesso troppo piccoli per comprendere cosa stesse succedendo, e dopo la didattica a distanza, che è stata enormemente difficile per docenti e discenti,  il nuovo inizio ha offerto ad alunni e genitori tutta una gamma di inediti problemi. Per un genitore i problemi consistono in ingressi ed uscite scaglionate, nella misurazione della temperatura corporea ai propri figli ogni mattina prima di recarsi a scuola e nel ricordarsi di compilare mille liberatorie, certificazioni, patti di corresponsabilità. Per gli studenti, invece, soprattutto i più piccoli, si tratta di rispettare tutta una serie di regole ferree ma al contempo incerte e fin troppo mutevoli.

Si ritrovano in fila ad un metro di distanza (o a due gradini, laddove si tratti di scale), senza banchi per più giorni a settimana, anche in tenera età, con la mascherina sempre pronta sotto il mento, e si vedono spesso negato persino il diritto di andare in bagno. Quando arrivano in classe affrontano la prima sfida della giornata: riuscire a custodire gelosamente zaini più grandi di loro dentro buste che li proteggano dal contatto con gli altri compagni. Singolare la circostanza che per riuscirci spesso si avvalgano proprio dell’aiuto di quei compagni da cui lo zaino andrebbe protetto. All’uscita raccontano soddisfatti ai genitori l’esatto numero di volte in cui si sono igienizzati le mani e proclamano con soddisfazione: “oggi avevamo il banco”. Come se tutte queste avversità non bastassero, sui giovani studenti italiani si è abbattuta una nuova sciagura : l’avvento del freddo e dei suoi primi effetti sulla loro salute.

Secondo quanto si apprende dalle recenti disposizioni, lo stato di salute dei giovani italiani è molto particolare: in sintesi, i bimbi più piccoli di 6 anni hanno 3 giorni (che, a detta di svariati medici, sono insufficienti per fare passare anche un banale raffreddore) per riprendersi da un qualunque malanno, mentre i loro colleghi più grandi possono vantare un periodo di tempo tre volte più lungo (10 giorni). Al termine di questo periodo, quando gli studenti possono essere riammessi a scuola purché i loro genitori firmino l’ennesima autocertificazione, è richiesto il certificato medico. Ed ecco che qui scatta l’inghippo: un genitore ingenuo potrebbe erroneamente pensare che basti ottenere (cosa di per sé non troppo semplice) che il figlio venga visitato per ricevere il tanto agognato certificato. Niente di più sbagliato, almeno a Messina: qui pare che moltissimi pediatri si rifiutino di certificare in assenza di tampone perché sprovvisti di “sfera di cristallo”. Si rifiutano di certificare anche nel caso di un bambino palesemente in salute, ipotesi in cui si sentono pure un po’ ridicoli ad attivare le USCA (il percorso per la prevenzione del Covid-19 nelle scuole ) e propongono allo sventurato genitore di turno di fare il tampone a proprie spese.

Ma in cosa consiste esattamente l’attivazione delle USCA? Il pediatra che non vuole certificare (potremmo chiamarlo pediatra senza portafoglio o senza ricettario) manda una mail all’Asp, citando nome e cognome del bambino, indicando un recapito telefonico e i sintomi (persino ridicoli come il raffreddore), quindi conclude dicendo al genitore un po’ confuso che verrà “contattato tempestivamente”. È possibile che sia vero nella maggior parte dei casi, ma in altri casi, purtroppo, i tempi di attesa superano i tre giorni, costringendo dei bambini a lunghe e ingiustificate pause dalla propria vita. Al termine di questa pausa il genitore viene contattato, parla con un medico che lo informa che sta per recarsi a “tamponare” il figlio, anche laddove dalla scheda risulti la palese asintomatologia del bambino. L’unica cosa che sembra emergere dall’attivazione di questo macchinoso sistema è la sua palese inefficacia ed inadeguatezza.

Si tratta di un percorso che vede interessati tre soggetti: scuole, pediatri e personale USCA, soggetti che piuttosto che collaborare nell’interesse del singolo bambino e della salute pubblica, spesso non trovano un punto di incontro e continuano ad individuare negli altri i responsabili dei disagi. Alcune scuole non provano ad andare incontro alle esigenze particolari dei bambini, laddove palesemente manifeste, né a spiegare le proprie esigenze ai pediatri; questi ultimi dal canto loro si rifiutano di certificare uno stato di salute apparente, stato che, per professione, sarebbero invece tenuti a certificare, mentre le USCA, pur notando le storture di determinati pediatri e trovando assurda ed errata la propria attivazione da parte di alcuni medici, sostengono però di non avere alcun tipo di controllo sulle loro scelte sebbene queste si rivelino tutt’altro che utili e rischino di disperdere energie e mezzi sanitari che andrebbero invece adeguatamente distribuiti in un contesto di emergenza sanitaria.

Pensando ai raffreddori futuri è inevitabile cedere  un po’ alla tentazione di seguire il consiglio di un’altra pediatra senza portafoglio, una luminare, che, davanti alla provocazione di una mamma (“allora certifico come motivo di famiglia”), ha risposto con convinzione: “Sì, le conviene”. Ricordo con nostalgia quando a marzo, tra un applauso dal balcone e l’altro, ci ripetevamo che saremmo stati migliori. Ma migliori non siamo, perché in un sistema che fa acqua da più parti, in una giungla fatta di cavilli burocratici che nessuno comprende fino in fondo ma che tutti usano per ottenere uno sgravio di responsabilità, o si sopravvive cedendo alla “furbizia”, con le conseguenze che possiamo immaginare, o ci si rassegna a fare pagare ai bambini l’incompetenza, la confusione e l’ignavia degli adulti.

Anna Serrapelle-ilmegafono.org