Ci sono vittime di mafia di cui, purtroppo, ci si ricorda meno, nonostante il loro sacrificio e il destino drammatico siano solo la parte finale di un’esistenza caratterizzata da un grande valore umano e da un profondo senso del dovere. Luigi Bodenza rappresentava perfettamente questo identikit. La notte tra il 24 e il 25 marzo del 1994, a Gravina di Catania, Bodenza, agente di polizia penitenziaria del carcere etneo, veniva barbaramente ucciso, con diversi colpi di pistola, da un commando mafioso. L’attentato, tipico della criminalità organizzata, per dinamica e modalità di esecuzione, fu ancor più terribile per un motivo: il movente.

Dalle ricostruzioni fatte dagli inquirenti dell’epoca, infatti, l’omicidio di Bodenza venne ordinato dal boss Giuseppe Maria Di Giacomo, detenuto dal settembre del 1993 nel carcere di Firenze, per puro sfoggio di potere e arroganza. Fu un omicidio “a scopo dimostrativo”. A cadere sotto i colpi mafiosi, infatti, avrebbe potuto essere chiunque: poco importava che fosse proprio Luigi Bodenza. Anche se si trattava di un agente valido e conosciuto per la sua intransigenza, lo scopo principale dell’omicidio era però un altro, ossia quello di dimostrare, sia all’interno che all’esterno del carcere di Catania, il potere feroce di cosa nostra. O meglio la sua violenza nel dare un messaggio allo Stato e a chi aveva un ruolo dentro le carceri.

Per capire meglio, è necessario ricordare il contesto in cui avvenne tutto ciò: parliamo del 1994, ovvero due anni dopo i terribili attentati a Falcone e Borsellino e uno solo dopo quelli di Firenze, Milano e Roma. Il Paese, inoltre, era ancora politicamente scosso dalle conseguenze di Tangentopoli e si preparava alla nascita di quella che veniva considerata una nuova Repubblica. Insomma, si trattava di un momento non facile, cosa che favoriva e rafforzava il messaggio “dimostrativo” mafioso. Ma c‘era un altro elemento importante. L’anno prima erano stati arrestati alcuni dei boss più importanti, da Totò Riina a Nitto Santapaola, caduti nelle mani di uno Stato che era stato costretto a reagire alle offensive mafiose. Il 41 bis, il  regime di carcere duro, toglieva ai boss qualsiasi possibilità di controllare il proprio potere. Una condizione che spingeva anche alcuni boss a collaborare con la giustizia pur di evitare il carcere duro. 

La mafia odiava questo regime e, nelle carceri, i detenuti al 41 bis si lamentavano, anche attraverso i loro legali, per il trattamento a loro riservato. Per questo, per far capire alla polizia penitenziaria che bisognava abbassare un po’ la guardia e riservare un trattamento più blando ai detenuti in regime di carcere duro,  il boss Di Giacomo avrebbe ordinato l’uccisione di un agente di polizia penitenziaria, individuato in Luigi Bodenza. Bodenza, però, non aveva nulla a che fare con il braccio di ferro tra Stato e mafia sul 41 bis. Lui era un semplice agente penitenziario che svolgeva al meglio il suo dovere. Non aveva collegamenti né con il mondo dell’antimafia né con quello della politica, così come non aveva alcun rapporto con ambienti mafiosi. Certo, per via del lavoro che svolgeva, aveva avuto sicuramente diversi contatti con i boss presenti all’interno del carcere, ma esclusivamente nell’assolvimento del proprio compito lavorativo. Era un intransigente, uno che rispettava e faceva rispettare le regole, ma non per questo poteva pensare di essere diventato bersaglio. E infatti è probabile che il mandante, così come gli esecutori dell’omicidio, non conoscessero l’uomo che avevano deciso di ammazzare. Un omicidio assurdo.

Come si legge sul sito del ministero degli Interni, Luigi Bodenza è stato successivamente insignito della Medaglia d’Oro al Merito Civile per “il suo mirabile esempio di elette virtù civiche e di alto senso del dovere spinti fino all’estremo sacrificio”. Ma la sua storia la conoscono in pochi. Purtroppo di questi servitori dello Stato silenziosi, infatti, si parla poco, ma è proprio per questo che vogliamo ricordare costantemente chi ha perso la propria vita per aver svolto semplicemente il proprio dovere. Perché anche nell’ombra della quotidianità, nello scorrere di una vita normale, fatta di lavoro e di etica civile, c’è chi combatte la propria battaglia e lo fa per il bene della comunità. Finendo persino per pagare un prezzo enorme. Chissà perché la mafia, tra tanti, ha scelto di uccidere proprio Bodenza. Per una casualità o perché magari la sua etica, il suo sguardo dritto davano più fastidio a chi stava dietro le sbarre? Non lo sapremo mai, forse, ma il suo nome dobbiamo conoscerlo e anche la sua storia. Perché soltanto con la nostra memoria possiamo fare in modo che quella morte assurda non avvenga due volte.

Giovanni Dato -ilmegafono.org