Camara Fantamadi per molti rimarrà solo un semplice nome comparso nelle cronache drammatiche di questa estate torrida. Ma Camara Fantamadi è un il nome di un essere umano finito dentro un funesto elenco di vite spezzate dalla schiavitù. Una schiavitù moderna, italiana, accettata anche da tutti coloro i quali non muovono un dito e, al massimo, alzano la voce solo quando la morte arriva a squarciare il silenzio ipocrita della quotidianità. Un nome che si aggiunge a quelli di Paola Clemente, Abdullah Mohamed e altri ancora. Braccianti morti sotto il sole, per condizioni di lavoro disumane, dentro quella cappa afosa e sudicia dello sfruttamento contro cui nessuna istituzione mostra di voler realmente combattere. Camara aveva 27 anni ed era originario del Mali. Un altro ragazzo in cerca di fortuna e di una vita migliore, un altro giovane uomo andato via, lontano dalla famiglia e dagli affetti, per cercare di guadagnare qualcosa per sé e per i propri familiari. Uno di quelli accusati dai populisti da balera di questo Paese e di questo continente di rubarci il lavoro.

Quale lavoro? Quello senza diritti e tutele, quello nel quale il potere di ricatto ben si sposa con le normative indegne che Europa e Italia continuano a riempire di ostacoli per un cittadino che viene da nazioni extra UE? Camara lavorava nei campi, a Brindisi, in quella Puglia la cui agricoltura è zeppa di caporalato, sfruttamento e martiri. Simboli di un Paese che non cambia, che non riesce a superare la retorica, la falsa indignazione, la politica delle misure dimezzate. I morti sono diventati una lieve scossa per chi, tra i vivi, continua a mostrarsi indifferente. I corpi rigidi, stesi al sole, a pochi metri o chilometri dal carnaio di schiavi curvati a raccogliere primizie, sono flebile scintilla, input per qualche toppa da mettere, qualche indagine da aprire e nulla più.

Perché allo sfruttamento sul lavoro si dedicano solo momenti, provvedimenti incompleti e privi di coraggio ed efficacia. Leggi che non agiscono affatto sulla prevenzione o alle quali non corrispondono adeguati e cospicui controlli, leggi vergogna, come le sanatorie, che consegnano i braccianti ai loro padroni, aumentandone il potere di ricatto. Intanto, tutto prosegue immutato, con i lavoratori vessati, truffati, sottopagati e oggetto di violenza costante. Sotto gli occhi di tutti. A Foggia come a Brindisi, a Nardò come a Rosarno, a Campobello di Mazara come a Vittoria o a Cassibile o in qualsiasi altro degli 80 luoghi di caporalato in Italia, da nord a sud. Il padrone vince sempre, la fa franca, perché conosce bene la sua forza contrattuale, si siede comodamente, con arroganza, sul suo potere di ricatto che sfrutta il bisogno e sogghigna davanti alla debolezza di chi lotta per i diritti.

Sono fronti isolati quelli degli scioperi, delle marce, così come sono isolate le azioni seppur pregevoli e utili di movimenti e associazioni che provano a costruire alternative economiche legali al caporalato, sia per i lavoratori sia per le imprese. Non bastano, perché non hanno il sostegno delle istituzioni, che non hanno il coraggio di essere intransigenti, di spezzare rapporti e convenienze elettorali in nome dei diritti, soprattutto se i titolari di quei diritti sono in gran parte stranieri. Camara Fantamadi è morto perché lavorava in condizioni terribili, sotto il caldo record di queste settimane. Ma non è morto solo per il caldo. E andrebbe spiegato a chi crede che l’ordinanza del presidente pugliese Emiliano, che vieta il lavoro nelle ore più torride, possa essere la soluzione. Non lo è innanzitutto perché poi bisognerebbe avere mezzi, uomini e volontà per controllare l’effettivo rispetto di questo principio nei campi in cui la legalità non è mai benvenuta. Non lo è perché riduce tutto all’effetto, senza mai andare alle cause.

Non è il caldo a uccidere. O meglio, il caldo è solo l’ultimo peso che schiaccia la schiena degli sfruttati. I veri assassini sono lo sfruttamento, i datori di lavoro, i caporali, le imprese che li foraggiano e li usano, vessando i lavoratori in nome del risparmio che fa rima con profitto. Se i lavoratori sono stranieri ancora meglio, perché è più facile che abbiano timore di reclamare i propri diritti, per paura di perdere tutto, non solo il lavoro ma anche la possibilità di rimanere in Italia. Camara era uno di quei ragazzi imprigionati nelle maglie dello sfruttamento. 10-12 ore di lavoro sotto il sole a raccogliere pomodori, dalle prime ore del mattino fino al pomeriggio. Se lavori a cottimo, guadagni in base ai cassoni che riempi. Ogni cassone pesa 300 kg. Il caporale che recluta gli schiavi prende 5 euro per ogni cassone dal datore di lavoro. Al lavoratore ne dà 3,5 euro. Per riuscire a guadagnare qualcosa devi riempire più cassoni possibili.

Per racimolare 21 euro, una miseria, devi riempire 6 cassoni, 1800 kg. In un giorno. Al sole. Il caporale è lì, accanto ai lavoratori, non a raccogliere, ma a urlare, battere il tempo, dare il ritmo, insultare e picchiare chi rallenta, chi prova a riposarsi un attimo. Camara ha vissuto dentro tutto questo. Camara Fantamadi è morto perché il suo corpo non ce l’ha fatta più, non ha retto. Perché dopo il lavoro sfiancante doveva tornare nel suo rifugio per la notte facendo dei km in bicicletta. Questo lo ha ucciso. Non il caldo. Il caldo è una condizione e la guerra al caldo serve a poco, senza che vi siano controlli, senza che vi siano diritti. Non è il sole, né l’afa a uccidere un lavoratore sfruttato, sono gli sfruttatori i veri assassini e contro di loro serve molto di più di un’ordinanza.

Contro di loro servono una cultura dell’accoglienza, l’eliminazione delle leggi vergogna, il riconoscimento della cittadinanza, che significa ricevere diritti e doveri, serve uno Stato che a tutti i livelli sia presente e costruisca luoghi di incontro pubblici tra domanda e offerta, e di conseguenza preveda controlli capillari e non aggirabili, poteri ispettivi più forti, punizioni severissime per datori di lavoro, imprese, caporali, complici vari. Servono sindacati che siano ventiquattro ore su ventiquattro in trincea e non si sveglino solo quando un corpo cade in terra come un frutto non raccolto in tempo. Serve una coscienza del diritto che questo Paese incattivito, indifferente e razzista sembra aver smarrito. Serve una mentalità nuova che parta dal riconoscimento del lavoro. Perché ieri è toccato a Paola Clemente, oggi a Camara, domani a cadere sarà un altro essere umano spezzato dall’egoismo di chi ha scelto che il profitto e il consenso elettorale contino più della vita di un ragazzo.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org