Sacko Soumaila era prima di tutto un ragazzo. Un uomo. Poi era un sindacalista, uno di quelli che non abbassava la testa e che credeva di dover lottare per i diritti di tutti, non solo per i suoi. Ha scelto di farlo in Calabria, in quella piana di Gioia Tauro che, oltre a una lunga storia di ‘ndrangheta, evidenzia anche una radicata impronta di sfruttamento e di discriminazioni. Soumaila sapeva che, abbassando la testa e limitandosi a curvare la schiena sui campi di raccolta, magari si riusciva a guadagnare quella miseria che serve per andare avanti, sopportando tutto il resto. Si chiama schiavitù e porta con sé il vento gelido della rassegnazione, l’accettazione di un sistema misero nel quale puoi solo provare a resistere, a sudare come una bestia per raccattare le briciole, stando attento ai bastoni, alle offese, agli sputi, al freddo delle notti e al fuoco degli incendi.

Come quello che pochi mesi fa, nella baraccopoli di San Ferdinando, ha sorpreso nel sonno Becky Moses, lavoratrice nigeriana, riducendo in cenere i suoi sogni, i suoi dolori e la sua vita. Soumaila lo sapeva che la miseria è complice del potere e dello sfruttamento. Lo sapeva che la negazione dei diritti si nutre del silenzio degli ultimi, degli offesi, degli umiliati. Ma Sacko Soumaila era un uomo maiuscolo e la schiena la teneva dritta. Soumaila era un sindacalista. Non voleva buttare la vita sulla misera convenienza del silenzio. Così aveva deciso di impegnarsi e lottare in una terra nella quale i migranti sono trattati come schiavi dentro i campi e come bersagli appena ne varcano l’uscita.

Conosco quella zona da anni, me ne sono occupato a lungo. Di racconti di violenze subite dai migranti, nei casolari come sul ciglio della strada o nelle campagne, ne ho ascoltati a decine. Quando scoppiò la seconda rivolta di Rosarno, nel 2010, buona parte d’Italia si indignò per qualche fioriera divelta o qualche atto di vandalismo commesso dai manifestanti arrabbiati, come se la narrazione delle umiliazioni e delle violenze subite dai lavoratori migranti fosse stata trasparente, eterea, come se tutto il prima non fosse mai esistito. Gli spari, i ferimenti, le bastonate, le aggressioni, gli insulti, le macchine che cercavano di investire i lavoratori al ritorno dai campi, dopo una giornata di lavoro. Macchine piene di ghigni malefici e ignoranti, di parole razziste e oltraggiose.

A tutto ciò si aggiungevano lo sfruttamento, le paghe misere, gli orari di lavoro disumani e le condizioni di lavoro schiaviste, senza alcun dispositivo di sicurezza, a mani nude e con le ginocchia affondate nei terreni degli agrumeti annacquati dalle piogge invernali, senza stivali ai piedi e guanti alle mani, o mascherine per proteggersi dai pesticidi (a meno che non provvedevi tu a comprarli, con i tuoi soldi). Una schiavitù pesante, dove le intimidazioni erano la regola da accettare per poter lavorare, per essere scelti dai caporali, che magari erano gli stessi che ti avevano vessato a Foggia o in Sicilia o in Campania, visto che a un certo punto sono diventati “stagionali” e itineranti anche loro.

A Rosarno ci fu la prima inchiesta che arrestò finalmente diversi proprietari terrieri. Era l’occasione per cambiare le cose, appoggiare chi lottava per i diritti. Il governo di allora, con il ministro dell’Interno Maroni, intervenne, ma non a tutela delle vittime, anzi a loro svantaggio. Così, in quella piana, come in altri luoghi di sfruttamento sparsi in tutta Italia, le cose non sono cambiate molto. Nemmeno quando nel luglio 2015, nelle campagne pugliesi, è morta una lavoratrice italiana, Paola Clemente, la cui vicenda portò a un dibattito culminato con l’approvazione, l’anno successivo, della legge 99/2016, la cosiddetta legge sul caporalato. Una normativa che tappa qualche buco ma in generale risulta inefficace, insufficiente, incapace di contrastare profondamente il fenomeno.

Sacko è vittima di questo sistema di sfruttamento, anche se non è morto di infarto su un campo, tra sudore e fatica, ma è morto mentre cercava di aiutare qualcuno. È morto mentre raccoglieva lamiere in un luogo abbandonato, per poter costruire i ripari di fortuna nei quali i lavoratori migranti, in tutta Italia, sono costretti a vivere, vista l’indisponibilità, l’inerzia, l’ostilità delle amministrazioni comunali e delle prefetture, oltre che delle istituzioni nazionali, ad approntare soluzioni a lungo termine che garantiscano dignità e diritti a questi lavoratori che sono forza lavoro indispensabile per le produzioni del settore ortofrutticolo.

Nella piana di Gioia Tauro si muore anche per questo. Si muore perché i controlli sugli sfruttatori non esistono, ma si muore anche perché qualcuno decide di dare sfogo alla violenza razzista, facendo leva su un clima pericoloso che aizza gli imbecilli, i codardi, quelli che oggi gonfiano il petto perché si sentono protetti da una collettiva barbarie razzista e dal silenzio eloquente e corresponsabile dei costruttori di odio. Sacko è morto perché qualcuno ha pensato che la vita di un nero vale poco, sintesi finale delle idee politiche di chi oggi governa il Paese e occupa il ministero dell’Interno. Sia chiaro, non è Salvini e non è nemmeno il suo predecessore Minniti ad aver premuto il grilletto. Non sono gli esecutori materiali né è penalmente colpa loro se qualcuno ha sparato. Ma moralmente sono responsabili di questo e di altri atti.

Dell’odio fascista nei confronti dei migranti, odio che si tramuta in omicidi, aggressioni, pestaggi, episodi esecrabili che si susseguono ogni giorno e ai quali la cronaca dedica solitamente poco spazio. Sono responsabili perché il loro linguaggio quotidiano e il loro silenzio davanti a un atto così grave equivalgono ad essere complici di quella logica che spinge ad azioni tanto ignobili. E non basta certo alzarsi in piedi in parlamento o esprimere una falsa solidarietà, soprattutto se a ciò si è fatta precedere una serie vergognosa di parole e minacce degne del Ku Klux Klan. Chi getta benzina e regala menzogne e fiammiferi a un popolo sempre più ignorante e cattivo, non può poi lavarsi le mani con il solvente dell’indifferenza. E ciò vale anche per chi ha la presunzione di informare.

Far passare Soumaila per un ladro è un delitto che l’ordine dei giornalisti dovrebbe sanzionare, se solo si svegliasse e pensasse alle cose serie. Così come dovremmo una volta per tutte fare attenzione al linguaggio. Perché scrivere, indignati e in buona fede, che è stato ucciso un sindacalista migrante “regolare”, significa indirettamente stabilire che il possesso di un documento sia il discrimine per far scattare una maggiore o minore indignazione relativamente a un fatto. Bisogna capire che anche se Sacko Soumaila fosse stato irregolare, per qualsiasi ragione, questo assassinio sarebbe ugualmente grave. Perché Soumaila era prima di tutto un uomo. Era come Jerry Masslo. E probabilmente non avrebbe chiesto vendetta, ma giustizia e diritti.

Allora Sacko merita la lotta più dura che esista ed è ora che chi sceglie di stare dalla parte delle vittime non allenti la tensione e combatta con lo stesso suo coraggio e con quello di tanti migranti che non si arrendono e alzano la testa. Come Alpha, un uomo mite che, nel 2009, a Gioia Tauro, affrontò gli scagnozzi di un proprietario che non voleva pagare a lui e ai suoi compagni le due settimane di lavoro svolte. Lo minacciarono. Lui non si mosse. Poi gli puntarono le pistole in faccia. Lui non si mosse.

Gli amici lo convinsero a lasciar perdere. Andò via promettendo che però sarebbe tornato il giorno dopo a chiedere il rispetto del loro lavoro. La notte stessa, nel casolare nel quale dormivano, lui e i suoi amici vennero aggrediti nel sonno e massacrati di botte. Il giorno dopo furono costretti ad andarsene via. Malconci e senza soldi. Nessuno, né in ospedale né al posto di polizia li ascoltò. Erano soli e senza tutele. Oggi non devono esserlo più.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org