La situazione a Roma, torna a precipitare. È tempo di agire e di farlo in fretta, per prendere dei provvedimenti seri nei confronti della criminalità organizzata, di costruire linee concrete di prevenzione: se ciò non a verrà fatto, il rischio che la Capitale venga sommersa dallo strapotere mafioso potrebbe diventare triste realtà. A seguito dell’ignobile agguato della settimana scorsa, a Torvajanica, nei pressi di uno stabilimento balneare e in presenza di numerosi bagnanti (tra cui tanti bambini), in cui è deceduto il 38enne Selavdi Shehaj, lo scenario che emerge è a dir poco preoccupante: la pace di Roma Capitale è in serio pericolo. La criminalità, con questo omicidio, ha voluto dare un segnale forte e visibile di presenza e potere.

Ma procediamo con ordine. Si è sempre pensato che a Roma la mafia fosse una questione autoctona, relegata a clan composti da chi in città ci è nato: i Casamonica, gli Spada, le famiglie della Magliana. E poi, di recente, Carminati e Buzzi, veri e propri esponenti di uno strato sociale nascosto, una terra di mezzo in cui illegalità e corruzione la fanno da padrone. Tutto ciò ha inevitabilmente portato ad indagini, inchieste ed arresti mirati esclusivamente a colpire elementi pericolosi, certo, ma che probabilmente poco avevano a che fare con una realtà ben più grande.

Come raccontato egregiamente da Roberto Saviano in un suo articolo pubblicato su Repubblica, la mafia a Roma, però, è tutt’altro che autoctona. Al contrario, a gestire i traffici importanti, i rapporti con l’imprenditoria e soprattutto con la politica, sono sempre le associazioni mafiose classiche: la ‘ndrangheta su tutte, seguita da camorra e, in minor parte, cosa nostra. I vari Casamonica e Spada non sono altro che sensali, “semplici” operatori di un meccanismo ben più complesso e pericoloso. Fino ad oggi, infatti, il territorio sarebbe stato consegnato nelle mani delle famiglie romane proprio perché molto più vicine alle realtà locali, alla gente del posto. Una sorta di biglietto da visita nel malaugurato caso qualcuno avesse deciso di agire di testa propria.

D’altro canto, però, questo ha permesso a ‘ndrangheta, camorra e cosa nostra di tralasciare l’aspetto militare, di non macchiarsi di sangue, portando così gli inquirenti e l’intera macchina giudiziaria a concentrarsi su esponenti importanti più a livello mediatico che criminale. Come è stato possibile tutto ciò? In maniera molto semplice: nessuno dei soggetti citati (né Carminati, né gli Spada o tantomeno i Casamonica) si è mai immischiato nei traffici di droga. Zero. Niente di niente. Lo spaccio sì, certo, e anche tanto. Il controllo delle strade, d’altronde, era ed è ancora oggi l’aspetto principale per la sopravvivenza dei clan locali.

Ma il traffico in sé è roba grossa, è roba importante. Roba di vera mafia. L’agguato di domenica scorsa, però, è il chiaro avvertimento che qualcosa sta cambiando. Decaduti gli Spada, i Casamonica e tutti gli altri, adesso ci sono loro: gli albanesi. Sia chiaro: la presenza dei “cugini” d’oltremare non è cosa recente, anzi. È da diversi decenni che la loro presenza in ambito mafioso continua a crescere, tanto da diventar el emento di estrema importanza per la creazione di affiliazioni mafiose con i clan italiani.Adesso, però, la situazione rischia di diventare ingestibile: se i clan albanesi dovessero iniziare a farsi sentire, a sparare laddove né la camorra né la ‘ndrangheta avevano mai osato, ciò comporterebbe un problema di caratura nazionale. Perché Roma è la sede della politica italiana, è il centro in cui vengono delineate le sorti dell’intero Paese.

Permettere che la criminalità organizzata, in collaborazione con una ben più agguerrita componente straniera (in questo caso albanese), possa liberamente colpire un punto così nevralgico per l’Italia, significa rischiare l’inizio di una guerra nel centro della Repubblica. Nel cuore del potere. Qualcosa che, come la storia ha dimostrato, potrebbe aprire scenari molto pericolosi.

Giovanni Dato -ilmegafono.org