Ci sono inferni che, oltre ad essere tali, hanno anche la sfortuna di non essere conosciuti o comunque di non trovare spazio sufficiente nella narrazione mediatica e politica. Sono inferni che ci raccontano gli stessi orrori di sempre, che comprendono tutto ciò che la crudeltà degli esseri umani possa compiere su altri esseri umani. L’Etiopia, dopo anni di guerra e violenza, sembrava aver trovato una via nuova, una strada verso un futuro di riforme e pace, di diritti riconosciuti e di conflitti sanati. L’Etiopia è una terra difficile, attraversata da numerose etnie, e proprio l’elemento etnico è stato storicamente centrale nella gestione del potere e nell’origine delle tensioni e delle violenze. Dall’aprile 2018, il primo ministro è Abiy Ahmed Alì, di etnia oromo, già leader dell’Organizzazione Democratica del Popolo Oromo (ODPO). Il suo nome è diventato noto nel mondo, perché tra i suoi primi atti da premier ci sono stati la liberazione di numerosi prigionieri politici e, soprattutto, la pace sancita con l’Eritrea.

Un impegno che gli è valso il premio Nobel per la Pace nel 2019. Sembrava una luce in mezzo ad anni di buio. Purtroppo, però, l’Etiopia non ha smesso di soffrire, dal momento che le tensioni radicate nel tempo sono esplose nuovamente, riportando nel Paese orrori purtroppo già conosciuti. Dopo l’uccisione, il 29 giugno scorso, del cantante e attivista di etnia oromo, Haachaaluu Hundessaa, molti oromo erano scesi in piazza per manifestare il proprio dolore e per richiedere al governo più tutela e più diritti per il loro gruppo etnico, che costituisce il 34% della popolazione etiope. Le manifestazioni si erano trasformate rapidamente in proteste, anche in virtù della insoddisfazione crescente per l’azione politica del presidente Ahmed Alì, sul quale erano riposte le speranze di questo gruppo etnico, tra i principali in Etiopia insieme agli amhara (più influenti politicamente ed economicamente), ai somali e ai tigrini.

Le proteste accese hanno spinto il governo federale di Alì a intervenire con le forze di sicurezza, con scontri che hanno causato circa 200 morti tra i manifestanti. Con tutte le polemiche e la rabbia degli omoro verso una violenta reazione decisa proprio dal presidente appartenente alla loro etnia. Ma per Ahmed Alì, i problemi non erano ancora finiti. Appena nominato a capo del governo, infatti, aveva promesso libere elezioni che, per via della pandemia, sono state poi sospese. Una decisione che però ha trovato l’opposizione degli indipendentisti del Tigray, regione dell’Etiopia a prevalente etnia tigrina. Il partito a capo della regione, il Fronte Popolare di Liberazione del Tigray, ha così organizzato autonome elezioni che si sono svolte a settembre 2020 con circa tre milioni di elettori.

La reazione del governo centrale però è stata durissima, con una offensiva militare iniziata a novembre, un’azione feroce, che ha portato oltre 60mila profughi a scappare in Sudan. Una guerra sanguinosa e silenziosa, della quale non si hanno immagini, cifre e notizie certe, perché nel frattempo il presidente etiope ha interrotto tutte le comunicazioni nella regione, tagliando la rete telefonica e internet. Le uniche notizie arrivano dai testimoni, ossia dai profughi, o dai loro familiari che risiedono in altri Paesi. Sono testimonianze terribili, che raccontano di una pulizia etnica in atto compiuta dal presidente oromo e Nobel per la Pace, Ahmed Alì. Raccontano di stupri ripetuti, di esecuzioni sommarie, di omicidi di innocenti, di mutilazioni, di tutte quelle crudeltà di cui l’essere umano ha dimostrato di essere capace.

Tra i principali media italiani, a interessarsene è stato il giornalista di Repubblica, Pietro Del Re, che ha raccolto in Sudan le testimonianze dei profughi (vedi il video qui), ma per il resto c’è molto silenzio. Poco spazio a quello che sembra un genocidio, l’ennesimo, in atto in un Paese nella cui storia c’è anche l’impronta sporca e funesta dell’Italia. Una mancanza di attenzione che ha portato alcuni cittadini tigrini residenti nel nostro Paese a fare un appello, a chiedere proprio ai mass media di accendere le luci su questa situazione drammatica. Come riporta l’agenzia Redattore Sociale, infatti, i Giovani Tigrini hanno affermato che “i social media e la ricerca di contatti con la stampa sono l’unico strumento” in loro possesso per sperare di “trovare informazioni preziose e vitali per darci la forza e la determinazione di portare alla luce quanto sta accadendo”.

“Purtroppo – scrivono – non abbiamo il numero accertato e ufficiale delle vittime a causa del blocco della libera informazione. Milizie della regione dell’Amhara, confinante con il Tigray, stanno combattendo insieme all’esercito federale”. Quello che chiedono i Giovani Tigrini Italiani ai media è “raccontare le nostre testimonianze, opinioni e di fornire molte altre informazioni che abbiamo reperito su questa guerra”. Un appello che speriamo venga accolto il prima possibile, così come speriamo che la comunità internazionale, l’Onu, i governi europei che con l’Etiopia hanno contatti e accordi, facciano qualcosa per fermare questo ennesimo, insopportabile orrore.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org