Il 23 maggio 1992 è una data tragicamente passata alla storia. Quel pomeriggio di 31 anni fa ha inevitabilmente scosso le coscienze e segnato la vita di intere generazioni. Pochi minuti prima delle 18.00, nei pressi di Capaci, un attentato dinamitardo tolse la vita al giudice Giovanni Falcone, a Francesca Morvillo, sua moglie, e a tre agenti assegnati alla loro protezione: Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Ero ancora una bambina eppure non riesco ancora oggi a dimenticare le apocalittiche immagini trasmesse dal telegiornale e, cosa che più mi colpì ed impaurì, i volti attoniti dei miei genitori. Era un’epoca diversa: di mafia si parlava, anche se principalmente in tv o nei giornali, c’era paura e una parte del Paese riponeva molta speranza nelle lotte portate avanti dal giudice Falcone e dal suo amico e collega Paolo Borsellino. Fu anche per questo che quell’attentato sconvolse tutti.

Un trentennio di indagini ha portato, quantomeno in parte, a cristallizzare la realtà di quel giorno. A premere il pulsante che spezzò violentemente 5 vite, e ne sconvolse molte di più, fu Giovanni Brusca, oggi collaboratore di giustizia, su ordine del boss Totò Riina. Ad oggi è ormai noto che la stagione stragista del ‘92, a cui appartengono l’attentato di Capaci e quello successivo di Via D’Amelio, fu una sorta di “propaganda mafiosa”, un tentativo, riuscito, di spaventare e dimostrare la propria forza per mettere in ginocchio le istituzioni e portarle ad accettare il “papello”, ossia le condizioni pretese da Riina per interrompere il bagno di sangue. Attentati, corruzione, apparati malati dello Stato, figure grottesche che dettano legge sfruttando la paura: sembra una trama di un film eppure è accaduto, è la storia recente della Sicilia e dell’Italia. Ciò che Riina ed i suoi affiliati non avevano considerato, però, è che oltre alla paura potevano innescarsi altri sentimenti: la rabbia, l’indignazione, il desiderio di rivalsa.

Così, mentre i potenti, o meglio parte di loro, sono scesi a compromessi, nella società comune c’è stato un graduale risveglio.Culturale e sociale. Si è iniziato a parlare sempre più di mafia, a scuola, in tutta Italia, si sono organizzate giornate di commemorazione e, lentamente, un numero sempre maggiore di persone ha cominciato a considerare possibile anche l’eventualità di combattere l’egemonia mafiosa piuttosto che assecondarla. Ad esempio, ogni 23 maggio viene organizzata “la Giornata della legalità” e si organizzano, su tutto il territorio nazionale, eventi di commemorazione e “propaganda antimafiosa”. Ma, aldilà della semplice commemorazione, ci sono stati, negli anni, fortissimi segnali di sostegno alle forze dell’ordine come quando, nel 2009, in occasione dell’arresto del latitante Domenico Raccuglia, gli uomini della catturandi furono accolti in questura dai cori e dagli applausi di tantissimi cittadini emozionati.

Il cambiamento sociale c’è stato, probabilmente non è ancora sufficiente a ripagare il sacrificio di coloro i quali hanno perso la vita per sconfiggere la mafia e per riportare la giustizia, ma l’aria è diversa. Il consenso verso le mafie è diminuito sensibilmente. Oggi mia figlia ha più o meno la stessa età che avevo io quel 23 maggio ma, a differenza della me di allora, sa cos’è la mafia, conosce storie, conosce nomi e volti e ha già una sua piccola coscienza antimafiosa pronta a crescere e attecchire. Probabilmente è questa la lotta più grande che si può fare contro il malaffare, insegnare alle nuove generazioni il bello della giustizia e ed esortarle a cercare quel fresco profumo di libertà di cui parlò Paolo Borsellino.

Anna Serrapelle- ilmegafono.org