Elezioni concluse, l’Italia sceglie una strada che ha già conosciuto in passato. Nessuna pretesa di fare analisi del voto, giusto lasciarla a chi ha più autorevolezza e, soprattutto, lasciarla alla storia. Riflessioni, queste sì, perché mettere in fila gli accadimenti e i dati è al tempo stesso un diritto e un dovere. Questo Paese ha conosciuto la campagna elettorale più amara e più triste della sua storia recente, dove a contrapporsi non sono state le idee, ma gruppi di potere e persone che hanno dimenticato, o perso per strada, il valore di troppe parole e il loro peso specifico. La parola “etica”, per cominciare, ha perso da tempo la cittadinanza nel linguaggio politico e quella questione morale, che più di quarant’anni fa Enrico Berlinguer considerava come la “questione nazionale più importante”, non ha mai trovato risposta: troppo delicata da affrontare, troppo “perdente” in una società dove il modello vincente si basa su altre fondamenta. Poi la parola “solidarietà”, che qualcuno non ha mai conosciuto veramente e che altri hanno dimenticato nel loro cammino verso la vetta della piramide.

Eppure, oggi più di sempre, di queste parole si sente il bisogno e si avverte la mancanza. Anche la parola “fascismo” sembra caduta nel dimenticatoio della storia, al punto che il suo naturale contrario sembra una parola fuori tempo, quasi un fastidio. Eppure, la storia di questo Paese insegna che “fascismo” e “antifascismo” sono parole che non dovremmo dimenticare mai. Ci raccontiamo che la democrazia contempla il rispetto dei risultati delle elezioni, il diritto di voto impone questo rispetto. Troppe volte, però, le regole della democrazia non sono sempre in linea con la parola stessa. Per esempio, una legge elettorale vergognosa può stravolgere il concetto stesso di democrazia, impedendo ai cittadini una scelta davvero libera e democratica e costringendoli a esprimersi sulla base di liste bloccate e decise dalle segreterie dei partiti e di coalizioni imposte dalla legge stessa. È una strategia che consente di tagliare le radici delle opposizioni, dei partiti di minoranza e, sostanzialmente, garantire premi di maggioranza e seggi in Parlamento ben superiori rispetto ai voti raccolti.

Sappiamo tutti che questa legge elettorale è sbagliata, sappiamo anche chi e perché l’ha voluta ad ogni costo e sappiamo anche che nessuno ha mai davvero lavorato per cambiarla. Oggi, questa legge consegna i 2/3 del parlamento ad una coalizione che ha ottenuto più o meno il 44% dei voti. A questo dato, si aggiunge il fatto che queste elezioni hanno visto una quota di astensionismo altissima. Se è vero, e per chi scrive è vero, che il “diritto di voto” è comunque tale anche quando è calpestato da una classe politica vergognosa, resta il dovere per tutti di chiedersi perché quasi il 40% dei cittadini ha scelto di non esercitarlo. Le risposte sono davvero tante.

La prima osservazione è a chi giova l’astensionismo, chi ne riceve i maggiori benefici? Sicuramente giova a chi ha dimenticato il valore di quelle parole: solidarietà, etica, questione morale. Le riflessioni però non possono finire qui. La storia ci ricorda che nelle società in crisi economica, sociale e morale, si guarda sempre alla voce che grida più forte e a chi trova sempre un colpevole per quella situazione. Oggi, anno 2022, l’Italia ha fatto la sua scelta: ha scelto quella destra che non ha mai nascosto le sue radici fasciste e che trova i suoi alleati in altre forze che non hanno mai nascosto il loro razzismo e il proprio ipocrita senso dello Stato e delle libertà.

C’è un’altra riflessione, non meno amara: la rinuncia della sinistra, o di quella che oggi si dichiara come tale, a quell’idea di vita che poneva gli individui al centro della società e che, intorno a quel centro, provava a dare forma e sostanza a quell’idea. Quell’idea aveva un valore che negli anni non si è più voluto ascoltare, come se quella che un tempo si chiamava lotta di classe fosse una pagina da chiudere, quasi con vergogna. Eppure, le classi esistono ancora e il cuore del problema rimane l’enorme disuguaglianza sociale. Nascondere la faccia di fronte a tutto questo, rinunciare al ruolo storico che la sinistra ha sempre avuto, apre la porta a strade pericolose. Difficile capire la linea di confine fra l’errore e il calcolo politico, ma la storia recente di questo Paese lascia poco spazio al dubbio ed è una storia che racconta di diritti persi, ceduti un metro alla volta. L’allontanamento progressivo da quel mondo che credeva, e ancora crede nonostante tutto, a quell’idea dell’individuo al centro della società, è diventato un buco nero in cui gran parte della sinistra si è persa.

Le radici di questo allontanamento sono relativamente vicine in termini temporali: il processo di deregolamentazione introdotto negli anni ‘80 dalle politiche di Margaret Thatcher in Inghilterra e Ronald Reagan negli Stati Uniti, fondato sulla flessibilità del lavoro, sulle privatizzazioni, sull’indebolimento dei rapporti sindacali, sulla fine dello Stato sociale e dei diritti, ha trovato nei decenni successivi un terreno fertile anche là dove non si credeva potesse trovarlo. Nel nostro Paese, la rincorsa al pensiero neoliberista ha contribuito, nel corso degli anni, all’isolamento di tutte quelle forze che a sinistra del Partito Democratico hanno provato a mantenere viva quell’idea di società che è stata alla base di ogni politica di sinistra. È stata fatta una scelta: privilegiare la strada del consenso politico attraverso il compromesso e la mediazione rispetto alla lotta politica e sociale. Quelle scelte hanno fatto a pezzi il mondo del lavoro e stracciato diritti acquisiti con anni di lotte operaie. La stessa sorte è toccata alla scuola e alla sanità pubblica, l’intero sistema del welfare è stato fatto a pezzi. Il prezzo più alto di tutto questo, lo pagano e lo pagheranno a lungo le generazioni più giovani.

Nel frattempo, sono subentrati altri elementi, prevedibili ma sottovalutati: i flussi migratori, che qualcuno si ostina a chiamare emergenze ma che, in realtà, sono la conseguenza inevitabile del modello sbagliato di società che nessuno prova a cambiare veramente. C’è una carovana di umanità che scappa dalle guerre e dalle carestie, dalla miseria e dallo sfruttamento. Quella carovana è disposta ad attraversare ogni mare e ogni tempesta: qualcuno realizza una piccola parte del suo sogno, qualcuno trova nuovi muri e nuovi padroni. Qualcuno, una parte consistente, trova una tomba in fondo al mare. Di fronte a questa carovana si sono alzati i muri e anche quella sinistra perduta ha messo i suoi mattoni: il primo mattone porta la firma di Livia Turco e Giorgio Napolitano, legge n.40/1998 che istituiva la figura dei Centri di permanenza temporanea per gli stranieri sottoposti a provvedimenti di espulsione.

Nella storia più recente sarà il ministro degli Interni, Marco Minniti, esponente di spicco del Partito Democratico, a posare i primi mattoni del muro davanti al “modello Riace” e contro Mimmo Lucano. Il suo successore, Matteo Salvini, completerà il lavoro. Poi serviva un cane da guardia nel Mediterraneo e sono arrivati gli accordi con la Libia, la fornitura delle motovedette e l’addestramento della sua Guardia Costiera. Non si è mai trovato il momento per una legge sullo “ius soli”, né per cancellare la vergogna della legge “Bossi-Fini”. In questi anni il Partito Democratico è stato forza di governo, in molti casi è stato anche alla guida di governi che avrebbero potuto e dovuto cambiare molte cose. Invece, era il 2017, questo stesso partito ha voluto e scritto quella legge elettorale che oggi permette a chi ha ottenuto quel 44% di voti di avere il controllo assoluto del Parlamento e promettere di cambiare la Costituzione Italiana. Infine, ma non ultimo, questo partito ha accettato di sedere allo stesso tavolo di governo con il partito razzista e xenofobo di Matteo Salvini.

Ecco allora che quella linea di confine fra l’errore e il calcolo politico diventa più chiara, più netta. Le possibilità e le occasioni per essere un partito capace di essere credibile e in grado di parlare un linguaggio diverso, di cambiare almeno in parte il volto di questo Paese, si sono perse nei gorghi del personalismo. La destra ha osservato tutto questo, ha aspettato il suo momento. Oggi ha vinto le elezioni e, a cento anni dalla marcia su Roma, ritorna alla guida del Paese da padrona del Parlamento e quando questo accade non è mai un buon segno. Certo, una parte rilevante di questo Paese è convintamente di destra. Lo era ai tempi del ventennio fascista, lo è stata ai tempi del Movimento Sociale di Giorgio Almirante e in quelli dei governi Berlusconi-Fini. Oggi qualcuno ha reso più semplice il compito a Giorgia Meloni, ma l’autocritica ha sempre avuto pochi estimatori, serve coraggio per l’autocritica. Senza quel coraggio l’individuo non sarà mai al centro di quel mondo che si può costruire intorno a lui. Sì, sono davvero tante le ragioni per cui il 40 % degli italiani ha scelto di non votare.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org