C’è una convinzione che spesso incancrenisce il pensiero di ciascuna generazione ed è quella di considerarsi sempre migliore delle successive. Un pensiero conservatore, naturalmente, un modo di concepire la politica e la società che è funzionale al mantenimento di posizioni di potere. Anche in queste ultime settimane abbiamo assistito a dichiarazioni, tweet, post che avevano come oggetto l’attacco ai giovani, soprattutto a quelli che dovrebbero renderci più fieri, ossia coloro che non si girano dall’altra parte, non subiscono, ma contestano, prendono posizione, difendono un diritto, non individuale, ma collettivo. Quello allo studio, quello alla sicurezza ambientale, alla salvaguardia del pianeta, alla tutela dei beni culturali, a un mondo più giusto, privo di disuguaglianze e discriminazioni. Nelle ultime settimane, abbiamo visto grotteschi personaggi politici, sindaci, giornalisti suonati, rappresentanti istituzionali puntare il dito contro chi protesta per l’emergenza climatica o per il caro affitti o a difesa dei diritti civili. 

C’è chi lo ha fatto con arroganza, c’è chi invece con un paternalismo ipocrita e stucchevole. Nessuno però che sia stato capace di rispondere sul tema, magari argomentando o intestandosi una proposta politica che possa contribuire a una soluzione. Quanto accaduto in Emilia Romagna, poi, risolve in modo tragico il dibattito su chi, tra attivisti e istituzioni, abbia ragione in merito all’emergenza climatica. Il clima è cambiato a livello mondiale e, ogni anno, facciamo i conti con le conseguenze, ma il tema da evidenziare è: quanto sarebbe ridotta la portata dei danni se si scegliessero politiche attente alla salvaguardia dell’ambiente? Esattamente una delle questioni sollevate dagli attivisti, non solo i giovani, ma in generale studiosi, esperti della materia, cittadini informati e sensibili all’argomento.

L’Emilia Romagna frana e si allaga solo per la sua conformazione naturale e per l’enorme quantità di acqua caduta? O anche per via di un consumo del suolo che procede a ritmo record in una Regione che, nel biennio 2020/2021, ha cementificato oltre 650 ettari, il 10,4% di tutto il consumo di suolo nazionale? E più in generale quanto costa il modello di sviluppo che mette il rispetto dell’ambiente e la lotta al consumo di suolo in secondo piano rispetto al profitto dei privati? Sentiamo accusare gli attivisti o anche gli scienziati di essere catastrofisti, ma quando sentiremo accusare le istituzioni per le catastrofi concrete e per le conseguenze che sono anche frutto delle loro scelte? Sono anni che, davanti a chi si oppone a progetti che violano i territori o minacciano i beni culturali, in ogni regione italiana, si ascolta la solita reazione arrogante di sindaci, presidenti di Regione, assessori, parlamentari, ministri. Anni che, magicamente, a un certo punto risuona la solita frasetta infantile, che etichetta sbrigativamente gli oppositori come “i signori del No”, “il popolo del No”, i “gufi”, i “professoroni”, e così via.

Un attacco scomposto e, peraltro, profondamente diseducativo, che però a quanto pare riesce a produrre il risultato sperato: distrarre dalle ragioni dei No e buttare tutto in caciara, usando ossessivamente i social, così da scatenare i fan e i propri elettori in una drogata e arcigna difesa di parte. Naturalmente a vantaggio di chi in quei progetti ha infilato i propri interessi, in costante conflitto con l’interesse collettivo. Lo slogan vuoto, “signori del No”, viene sbandierato ogni giorno, in ogni occasione, per coprire la carenza di contenuti e glorificare il proprio narcisismo, normalizzare la propria arroganza. C’è chi, in alcune zone, ne ha fatto un mantra, trasformandolo quasi in un manifesto elettorale. Atteggiamento diseducativo, come si diceva, perché il No, ossia il dissenso, è il sale della democrazia. Il No (chiaramente argomentato in modo credibile) obbliga al confronto, chiama all’ascolto dell’altro, induce a ragionare, a comprendere, soprattutto quando a sostenere certe ragioni sono studiosi, esperti, cittadini informati, associazioni con anni di attività su un determinato settore. Si dovrebbe ascoltare, dibattere, ci si dovrebbe confrontare, in una democrazia.

Il No, infatti, è vitale anche nella vita quotidiana, perché dire No spesso significa preferire la legalità alla convenienza personale, l’onestà alla corruzione, la salute alla droga, la dignità alla schiavitù mafiosa, il bene comune all’interesse privato. Pensare che il dissenso sia fastidioso, ridere in faccia alle denunce o alle allerte degli esperti, accusarli di avere un interesse specifico solo perché sono in disaccordo con un modello di sviluppo pericoloso e spregiudicato, è quanto di più sbagliato possa risiedere in un ministro, un presidente di Regione, un sindaco, e così via. Eppure sono tanti gli alfieri di questa orgiastica ossessione per il Sì. Un Sì a tutto, alla cementificazione, allo sradicamento di alberi, al selvaggio e scellerato sfruttamento di beni culturali di inestimabile valore, alla trasformazione delle città in club esclusivi per turisti, gente facoltosa e aziende di lusso, con i cittadini e le loro esigenze accantonati in un angolo, tra indifferenza o risposte fatalmente tardive e vuote. Un Sì che poi viene riempito da qualche rapida rassicurazione sui controlli, sulla garanzia di vigilanza e di tutela. Tutte cose che poi, come dimostra la realtà, non sono in grado realmente di diventare fatti.

I signori del Sì insultano chi esprime dissenso e al contempo, però, chiedono fiducia incondizionata, come se il bene pubblico, la salute e l’incolumità dei cittadini, l’ambiente, l’identità culturale, fossero roba da poco. Come se potessimo permetterci di rischiare rispetto a qualcosa che non ammette nemmeno il minimo rischio. Ancor più se chi ci offre la sua assicurazione, pur essendo idealmente capace di rendersi conto delle possibili, drammatiche conseguenze, se ne disinteressa totalmente. E questo è parecchio grave, come possiamo tragicamente notare. Se solo si mostrasse più rispetto verso quel sacrosanto dissenso che emerge, soprattutto quando la posta in palio è alta, si otterrebbe un duplice vantaggio: si potrebbero trovare soluzioni più adatte e si potrebbe curare l’allergia alla democrazia che colpisce buona parte degli esponenti politici nazionali e degli amministratori locali. E magari sperare di costruire un mondo migliore, senza rinviarlo sempre al futuro.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org