Luciano Canfora, storico elzevirista del Corriere della Sera, qualche giorno fa, in un pregevole articolo sul giornale di Fontana chiariva che il fascismo è vivo, e lotta contro di noi. Scrive, Canfora, della sua “capacità di riproporsi in forme aggiornate ben al di là delle formazioni esplicitamente neofasciste e perciò marginali”, spiegando che il proliferare di questa riproposizione è agevolato, in questo periodo, “dal baratro che si è venuto aprendo tra «sinistra» e «popolo»”.

Un baratro, un buco del quale sempre più spesso si sente parlare. Come un limbo, una enorme massa buia e impalpabile dentro la quale in molti si sentono precipitati e si ritrovano a galleggiare senza distinguerne contorni, rumori, odori. Lo smarrimento sembra essere il tratto distintivo che accomuna chi si ritrova annegato senza vedere una soluzione per tirarsi fuori. Chi ha visto lo strepitoso “Scappa – Get Out” di Jordan Peele potrebbe riconoscersi nel povero Andre che, sotto ipnosi, precipita nel “mondo sommerso” senza riuscire a riemergere nonostante gli sforzi.

Pensandoci, però, la soluzione non è venirne fuori. Fuori ci sono i nazionalisti difensori del popolo che aizzano le masse contro i poveri che vengono dall’esterno e contro i ricchi che si muovono in una mai definita oscurità europea, e difficilmente lì in mezzo ci si può riconoscere in qualcosa di diverso dalle urla e dal sempre più avanzante analfabetismo funzionale. È lì dentro, quindi, che bisogna rimanere, e perciò riconoscersi, organizzarsi, accendere una luce e iniziare a costruire.

Qualche settimana fa, nei giorni in cui il governo definito “gialloverde” prendeva forma chiudendo in un epilogo stancante la surreale rappresentazione dell’incoerenza e del pressapochismo, presentavo un libro dal titolo vagamente nostalgico, “Che fare?”. L’autore, Luigi Savoca, avvocato con una corposa storia nella sinistra italiana, attraverso un’ampia analisi sociale ed economica del secondo Novecento si chiede fra quelle pagine come fare per trovare un’identità di sinistra che non sia quella di falliti esperimenti partitici – come l’italiano Pd o il francese En Marche, mi vien da dire – ma che trovi nelle radici storiche e scevre dall’evoluzionismo elettorale che ha inseguito sé stesso nei decenni una ragione d’essere tale da accomunare i dispersi con semplicità.

Alla fine della presentazione si è discusso di soluzioni, di riposte possibili a quel “che fare?”, senza però andare oltre un confuso dibattito su banche, economia, Cina, Russia, D’Alema il distruttore che resta sempre furbo e gli intellettuali che alla fine non hanno una vera utilità. Insomma: nessuna risposta. Eppure non dovrebbe essere difficile: i principi di uguaglianza sociale, la necessità della cultura e del ritrovamento dell’onestà intellettuale, la capacità di autocritica e il rifiuto di qualsiasi estremismo a favore di una corretta analisi delle persone e delle capacità individuali dovrebbero essere principi non complessi sui quali cominciare a costruire.

E allora cosa c’è di difficile? Cosa manca? Beh, probabilmente bisogna concentrarsi, tra le altre cose, su un elemento in merito al quale ci si è trovati d’accordo alla fine di quella presentazione: la mancanza di una figura di riferimento. Non c’è, non si trova. Qualcuno che conosca bene la complessità della situazione attuale avendo consapevolezza del passato e sappia parlare a chiunque senza salire su alcun piedistallo. Sì, potrebbe apparire la più retorica delle utopie, ma è talmente semplice da complicarsi da sola.

Perché in fondo i mezzi per venire fuori dall’avanzata del buio ci sono. Quante volte, in un solo giorno, si leggono sui social accuse che cercano di trovare legittimità nell’ignoranza? E le stesse, in quantità minore, circolano per strada, fra le piazze. La conoscenza viene additata come male, quasi fosse la veste di una crudeltà complice del disagio economico e sociale, crudeltà nei confronti di chi si ritiene costretto all’ignoranza, quella stessa ignoranza rivendicata un giorno sì e l’altro pure con un moto d’orgoglio. Basterebbe prenderla in mano, la conoscenza, e usarla senza abusarne, senza gonfiarla. Usarla per correggere il tiro, per riempire i vuoti. E dovrebbe farlo, sopra gli altri, qualcuno capace di zittire la confusione, i mugugni, le lagne, gli scherni, il senso di superiorità arrembante.

Perché sapere di non sapere può tornare ad essere la base della conoscenza. E può liberarci. Così magari in futuro non ci troveremo con un plebiscito a favore di un programma di governo che a tratti contraddice la storia della nazione e urta coi trattati internazionali, con un ministro degli Interni che fa leva sulla paura più che sulla speranza, con un ministro delle Infrastrutture che chiede ai governi di intervenire su Organizzazioni non Governative, con un ministro per il Sud che dà la colpa dell’aumento del Pil ai condizionatori, con un ministro della Salute paladino – quasi suo malgrado – dei “no vax”, con sottosegretari che inneggiano all’Etna o considerano un complotto l’allunaggio. E chi più ne ha, per carità divina, se li tenga.

Seba Ambra -ilmegafono.org