Matteo Salvini è tornato in Sicilia. Questa volta non più da ex ministro in campagna elettorale, ma da guida di un partito che fa le sue mosse. Muove le sue pedine. Si prepara e si sposta più a sud di quella Calabria rispetto alla quale non ha saputo intestarsi la vittoria, semplicemente perché non ha vinto lui, ma quelli con i quali si era alleato. Ha scelto la Sicilia per dare continuità alla sua voglia di conquistare quel sud nel quale il suo partito non riesce ancora a sfondare. Fa il suo gioco, fa quello che conviene a se stesso e al suo gruppo politico. Che piaccia o no è legittimo. Come altrettanto legittime sono le manifestazioni di chi dissente e protesta. Niente di strano, di anomalo, è la democrazia. Ciò che è anomalo, ma forse nemmeno tanto se si guarda la storia di questa isola, è quel che avviene in uno strato della società e della politica siciliane.

È anomalo il consenso di una parte dei siciliani e quello improvviso di alcuni esponenti politici. È anomala l’apertura di un governatore che ha chiamato presuntuosamente la sua formazione politica “Diventerà bellissima” e che adesso, per puro calcolo, programma l’ingresso in giunta di chi alla Sicilia non ha mai dedicato altro che disprezzo o al massimo indifferenza. Non solo l’indifferenza simbolica della foto dell’ex ministro dell’Interno mentre, sorridente, divorava pane e nutella a poche ore dal sisma che generò crolli e paure nei comuni dell’Etna, ma anche quella reale, concreta di chi ha espresso dei ministri in vari settori di governo che non hanno mai mosso un dito per risolvere le questioni legate al sud. Ci hanno sempre guardato con fastidio, etichettando il Meridione come una palla al piede, il cugino non solo più povero ma anche più scemo.

Lo hanno fatto senza pudore e con un coro di appoggio che volutamente dimenticava le migliaia di persone, lavoratori, talenti, maestranze che hanno contribuito a rendere il nord un luogo ricco e culturalmente vivace. La cosa peggiore è che quel coro oltraggioso e menzognero era composto anche da meridionali e da siciliani. Gli stessi che oggi plaudono a Salvini e pur di farlo sono pronti a sputare sulla propria storia. Gli stessi che per un posto in qualche consesso politico più appagante, sia economicamente che in termini di visibilità, svendono la propria dignità e la propria faccia. Ecco perché, meglio ripetercelo, il problema non è Salvini, non è la Lega e nemmeno il nord. Il problema siamo noi.

È la Sicilia, sono i siciliani, un popolo mai stato popolo, diviso fisicamente e culturalmente, marchiato da una storia di ingiustizie e miserie che ha responsabilità che vengono anche da nord, certo, ma che dietro tali responsabilità ha costruito l’alibi per se stesso e per le proprie colpe. Un popolo mai stato popolo che si porta dietro il complesso del dominato, di colui che ha trasformato la faccia tetra della rassegnazione servile nel volto magnanimo dell’ospitalità, così da difendere un senso di orgoglio e di dignità che però rimane ingabbiato in sfere troppo intime e nascoste. Un popolo che ha esponenti politici in larga parte incapaci di rappresentare una classe dirigente seria, libera, votata all’interesse collettivo.

Fa rabbia e suscita tristezza vedere lo sguardo amorevole di un sindaco, che ha tradito i propri elettori, mentre imbocca Salvini con un pezzo di carne cruda che assurge a simbolo di una terra che, oltre al cibo, ha tanto altro, compresa la storia di personaggi che mai avrebbero curvato la schiena davanti al potere. Fa ancora più male leggere i commenti entusiastici di molti suoi concittadini, felici di essere rappresentati da una triste pantomima di quel potere misero e insulso. Fa male perché la Sicilia non è solo questo, anzi, la Sicilia è anche talento, donne e uomini di grande valore, avanguardia antimafiosa, la prima a sviluppare anticorpi, intelligenze, professionalità e strategie contro le mafie. La Sicilia è arte, cultura, impegno, accoglienza, è terra di letterati e di lotte.

Scriveva il grande intellettuale siciliano Pippo Fava a proposito della speranza, al termine del suo viaggio attraverso la Sicilia: “In verità non c’è in tutta l’Europa un popolo così orgoglioso e infelice, come quello siciliano, che faccia tanto male a se stesso, ma non c’è nemmeno un popolo che abbia tanta devozione alla sua terra, e che abbia altrettanto coraggio di lottare per l’esistenza, e tanta violenza, tanto amore per la vita. Ecco la sua forza: il desiderio intatto e furioso di vivere”. E ancora, aggiungeva Fava: “Dentro questo desiderio ci sono tutte le cose sbagliate della sua anima: l’avidità, l’ignoranza, la corruzione, il delitto […] e la povertà, l’egoismo, la superbia fanatica; ma c’è anche la sua infinita pazienza al dolore ed il suo terribile bisogno di giustizia. C’è anche la sua intelligenza ineguagliabile, il suo senso morale della morte, cioè il suo ideale che la vita sia sempre l’occasione di lottare per qualcosa. Il siciliano viene vinto continuamente dal mondo, ma mille volte si rialza e continua a lottare”.

Una lotta troppo spesso solitaria, perché fare rete in questa isola significa combattere gelosie, invidie, meschinità e sotterfugi. Significa costringere i siciliani a combattere la mentalità mafiosa che, come diceva Giovanni Falcone, è dentro di noi e che va affrontata e abbattuta guardandoci dentro. Significa abbandonare la propria indole da dominati, significa mettere la dignità e gli ideali davanti a qualsiasi profitto o convenienza personale. La Sicilia ha perso da tempo il suo memorabile spirito illuminato, quello dei suoi intellettuali magnifici che hanno lasciato un segno indelebile e meraviglioso nella storia della letteratura moderna, del teatro, del giornalismo, dell’arte e della scienza. La Sicilia è tornata indietro, pur trascinando avanti quella speranza che resiste. I siciliani migliori, quelli che non hanno smarrito la memoria, oggi provano a destarsi dalla rassegnazione, provano a “rialzarsi e continuare a lottare”.

Lo fanno troppo spesso, però, attorno al vuoto di chi non ascolta, di chi ritiene che le vie del futuro siano solo due, le più antiche: il grande inganno autonomista, che tanto piacere ha fatto alle mafie, o l’asservimento a un ennesimo “dominatore”, vecchio come il sistema che rappresenta e sul quale si poggia anche in Sicilia, al quale cedere lo scettro sapendo già che lo userà per rinvigorire vecchi mostri. La terza via, quella della fierezza e della libertà, della dignità e della cultura, del rinnovamento civico della società e della sua classe dirigente c’è, è viva, ma attualmente minoritaria. E viene umiliata e sbeffeggiata davanti a un piatto di salsiccia e polenta e allo sguardo amorevole di chi ha scelto ancora una volta di servire il potente di turno. La speranza è che la Sicilia, quella vera, trovi la forza per uscire dall’isolamento e continui a lottare per liberarsi da questa vergogna, per risultare indigesta a chi sta pensando di comprarsela o prenderla in ostaggio.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org