C’è una linea di confine che questa società ha superato come se non ci fosse un domani, una linea che affonda le sue radici nel tempo e nella storia stessa dell’umanità: è il confine fra la miseria e la grandezza dell’uomo. Jean-Paul Sartre sosteneva che “l’uomo esiste innanzi tutto. Si trova, sorge nel mondo e si definisce dopo, all’inizio non è niente. Sarà solo in seguito, e sarà quale si sarà fatto”. È quindi nel proprio cammino che, un giorno alla volta, ognuno di noi progetta se stesso e costruisce quello che diventerà. Il mondo di oggi, la società in cui ognuno di noi vive e ha costruito se stesso, avvalora ogni giorno questo pensiero di Jean-Paul Sartre. Questo mondo che ci ostiniamo a definire moderno in realtà è lontano anni luce da quello che dovrebbe e potrebbe essere se solo lo volesse veramente. Invece assomiglia sempre più a una “Arancia Meccanica”, dove la costruzione malata di un dentro e di un fuori è diventato il progetto quotidiano di autorità e autoritarismi, a cui soltanto una piccola fetta di umanità sembra riuscire a resistere e a sottrarsi.

Una società schiacciata dal peso dell’assenza di empatia, dove il desiderio e la bellezza del connettersi con gli altri sono ai margini della vita e delle priorità. Stiamo camminando sull’orlo di un abisso, e più l’abisso si avvicina più aumentano l’eccitazione e la cattiveria con cui ci si accanisce nei confronti degli ultimi. L’odore della battaglia e dello scontro è adrenalina pura, che si autoalimenta in un gioco perverso che non si ferma, perché l’umanità, nel bene e nel male, è questa: difficile da capire, più di quanto si creda. Camminando sull’orlo dell’abisso siamo in guerra, ma in molti fingono di non capirlo o di non saperlo. Tutti i grandi dicono di volere la pace ma la pace non arricchisce chi costruisce e vende le armi, la pace non serve a chi non ci guadagna e allora si va alla guerra come si va ad una festa, orgogliosi di essere fra gli invitati.

L’abisso dunque, dove le violenze quotidiane sembrano scontate e accettate quasi con distacco se non con indifferenza. I nostri giorni sono lì a raccontare il vuoto che stiamo costruendo intorno a noi: in quel vuoto non c’è posto per la memoria, offesa e capovolta. La memoria è quell’unità di misura che non consente agli uomini di accettare ogni cattiveria e perdonarsi. Ma l’uomo dimentica, o finge di non ricordare, quelle pagine della propria storia che lo mettono sul banco degli accusati per quello che ha fatto, per quello che ha accettato e legittimato girando lo sguardo e chinando la testa. Tante, troppe volte abbiamo finto di non vedere, lasciando ad altri il compito di intervenire, di opporsi agli eventi e di pagarne il prezzo. È successo e succede per tutte le guerre, che non nascono mai all’improvviso ma sono preparate e studiate un giorno alla volta. Le guerre sono sempre il risultato di equilibri e territori da conquistare o da mantenere, di ricchezze da difendere. Poi le guerre finiscono, ma solo in apparenza e solo temporaneamente, giusto il tempo per ricostruire sulle macerie e sulle vite rubate. Ma le guerre sono solo la punta, tragica e finale, di un iceberg che gli uomini innalzano.

Accanto alle guerre, prima, durante e dopo, c’è tutta la natura primordiale degli uomini: il dominio sugli altri, le religioni vissute come integralismi, il razzismo, la miseria umana sempre capace di accanirsi contro l’ultimo anello della catena, quello più debole e che deve resistere fino alla fine perché quella è la sua unica possibilità. Non l’ha scelto lui, altri hanno scelto in nome suo e poi gli hanno detto: “Ecco, sei l’ultimo anello e non avrai nessun’altra possibilità che questa”. In ogni epoca, le classi dominanti hanno sempre scelto con cura l’ultimo anello: quella schiavitù abolita dalle leggi internazionali, ma non dalla logica del potere e del profitto, è ancora viva nella mente di molti uomini, troppe volte gli stessi che scrivono leggi che poi ignorano e calpestano in prima persona.

Voltare la testa e guardare da un’altra parte, lasciare a poche avanguardie il compito di opporsi e di lottare. Questo mese di marzo lascia un fetore terribile dietro di sé, ignorando ogni profumo di primavera: la strage di Cutro è solo la più recente delle tante che hanno trasformato il Mediterraneo in un mare di morte e, davanti a quella strage, le parole delle autorità di questo Paese malato sono un insulto quotidiano alla vita e all’umanità. Nessuna autocritica, nessun pudore e nessuna vergogna, ma solamente un volgare attacco, ogni giorno più violento, verso chi cerca una salvezza scappando dall’inferno e verso chi salva vite in mare. È in quelle parole e in quell’attacco che il confine viene superato: non è nemmeno più una questione di schieramenti politici avversi, ma di cattiveria umana elevata all’ennesima potenza. Il calcolo politico, da solo, non basta a giustificare tanta violenza e tanta volgarità nell’attacco ai migranti e alle ONG. Serve qualcosa in più: la cattiveria umana, appunto.

Quella cattiveria che trova sponde e appoggi importanti: una gran parte dei semplici cittadini che hanno permesso a questi mostri di guidare il Paese e decidere cosa, come e quando; una parte significativa dell’informazione servile e vigliacca che deforma la realtà e non racconta nessuna verità. Questo mese di marzo ci ricorda un’altra strage: Roma, le Fosse Ardeatine. Le parole hanno sempre un peso specifico e, quando si omettono parole come “fascismo” e Antifascismo” nel ricordare quella strage, non si è degni di governare un Paese che al fascismo ha pagato un enorme prezzo di sangue. Il mese di marzo non è sempre primavera: nell’Argentina del 1976 la notte cadeva su intere generazioni di “desaparecidos”, nel silenzio di un mondo che guardava da un’altra parte. Il mondo, una gran parte di esso, guarda sempre in altre direzioni, anche oggi che stiamo camminando sull’abisso che abbiamo costruito e dove scegliamo accuratamente quello che ci conviene ricordare e difendere, il resto non ci riguarda.

Non ci riguarda la violenza che ogni giorno si consuma sulle donne, sui bambini, sui migranti, sulle minoranze, su tutti gli anelli deboli della catena. La cattiveria la vediamo solo quando si è compiuta e non quando la si esercita quotidianamente con fatti e parole. Poi, solo dopo, esigiamo la vendetta e la pena esemplare per mettere a posto la coscienza, ma dimentichiamo in fretta e sempre, perché ricordare significa fare i conti con noi stessi. Fedor Dostoevskij scriveva che “non c’è niente di più facile che condannare un malvagio, niente di più difficile che capirlo”, forse perché ognuno di noi si considera incapace di compiere azioni crudeli. Per questo riusciamo a rimuovere, a dimenticare. Chi ricorda oggi gli orrori del carcere di Abu Ghraib, alla periferia di Baghdad, dove i “marines” americani umiliavano e torturavano i prigionieri? Chi ricorda oggi quelle fotografie di uomini tenuti al guinzaglio come i cani? Chi ricorda tutte le guerre di aggressione a cui abbiamo partecipato, convinti di dover vendicare torti subiti e di portare finalmente la democrazia?

Oggi sui media non si parla più dell’ondata di violenza che in Iran si è scatenata sulle donne, perché? Perché l’onda emotiva si sposta in continuazione e l’autorità e il potere sanno come spostare l’attenzione mediatica su altri obiettivi, e tanti obiettivi alimentano l’indifferenza. Ognuno si chiude nel proprio castello, al sicuro. La cattiveria è un sentimento umano e l’autorità lo coltiva per noi, lo alimenta con cura perché sa che un giorno noi useremo quel sentimento per giustificare ogni scempio. Ecco, allora, che la fotografia della nostra società contemporanea prende forma e colore. Racconta perché oggi camminiamo sull’orlo di un abisso che dovrebbe farci paura e fermarci. Fermarci, magari solo un momento, per guardare nello specchio quell’immagine riflessa di noi stessi. Forse troveremmo il coraggio di indignarci, di sentirci almeno per una volta coinvolti in un gioco che non ci appartiene e di cui altri hanno scritto le regole, e ribellarci. Le regole, tutte le regole, sono scritte per essere abbattute. Non è difficile, anzi è facile: basta alzare la testa e non girare lo sguardo da un’altra parte.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org