Altre due donne sono state uccise dopo il femminicidio di Giulia Cecchettin e dopo la manifestazione contro la violenza di genere che, solo a Roma, ha portato in piazza centinaia di migliaia di persone lo scorso 25 novembre. Stesso copione per entrambe: donne maltrattate e poi assassinate dal marito, una a coltellate e l’altra con una mazza da cricket. La violenza di genere in Italia ha numeri preoccupanti: da inizio anno, le donne uccise da uomini sono state 106, una ogni tre giorni; di queste, 87 sono state uccise in ambito familiare e affettivo e in 55 casi l’omicida era un partner o un ex partner. Nello stesso periodo dell’anno scorso, le donne vittime in ambito familiare e affettivo erano state 91, e in 53 casi l’omicida era un partner o un ex partner. Anche i dati annuali dal 2020 al 2022 e quelli relativi a periodi precedenti mostrano una tendenza piuttosto stabile. Secondo i dati del ministero dell’Interno, le donne sono uccise quasi sempre da qualcuno che è loro vicino, e negli ultimi anni ciò accade più di quanto succedeva in passato.

È abbastanza evidente che si tratta di un fenomeno strutturale e radicato nel tempo, che necessita l’adozione di leggi chiare, precise ed efficaci, nonché di risorse economiche adeguate e di un programma culturale a lungo termine. Ma lo Stato italiano non sembra interessato a fare nulla sul piano concreto, al di là di qualche proposta sterile e vaga, come l’ultima relativa all’educazione sentimentale alle superiori in forma sperimentale. Anche qui il copione è sempre uguale: i femminicidi ci indignano, sollevano interrogativi, provocano dolore, poi arrivano le reazioni della società e della politica sull’onda dell’emergenza, ma le problematiche strutturali rimangono.

La prima legge contro i femminicidi e la violenza sulle donne in Italia è stata approvata solo nel 2013, dopo la ratifica della Convenzione di Istanbul redatta nel 2011 dal Consiglio d’Europa e successivamente sono state adottate altre misure che, però, si sono rivelate inefficaci e spesso sono basate sull’assunto che la donna sia un soggetto debole da proteggere e basta. Come già denunciato da alcuni sindacati e giuristi nel 2013, la normativa sui femminicidi tende inoltre a privilegiare la punizione invece che la prevenzione, vera chiave di volta per combattere questa piaga. Lo Stato dovrebbe piuttosto dotarsi di una struttura organizzativa sistemica, ramificata sul territorio, adeguata ai diversi contesti socio-culturali e compatta, al di là dei centri antiviolenza e i rifugi per le donne, che sono comunque troppo pochi e sottofinanziati.

I centri sono importanti perché garantiscono accoglienza e possibilità di assistenza legale, offrono consulenza psicologica e percorsi di orientamento al lavoro; tuttavia, i fondi ad essi destinati sono del tutto insufficienti e distribuiti in maniera disomogenea. A denunciarlo è l’associazione Dire, che da anni si occupa del tema. La stessa Dire sostiene che nelle scuole non si fa ancora abbastanza, mentre bisognerebbe investire in modo massiccio e sistematico sulla formazione e la prevenzione “primaria”, in politiche innovative che possano davvero sradicare discriminazioni e disuguaglianze di genere alla base di norme sociali e comportamenti individuali che producono e riproducono la violenza maschile contro le donne, sia nella sfera pubblica che in quella privata.

È una sfida cruciale, che riguarda tutti, indistintamente. Il vero cambiamento può venire solo dalla formazione e dall’educazione per scardinare e superare, in un tempo medio-lungo, un sistema culturale ormai anacronistico e inadeguato. E tantissime giovani, ma anche tanti ragazzi, lo hanno già capito, ecco perché nella piazza di sabato 25 novembre a Roma, alzavano cartelli con uno slogan semplice ma pungente: “Proteggi tua figlia, educa i tuoi figli”.

Redazione -ilmegafono.org