Circa quindici anni fa, durante una trasmissione nella quale era ospite, Gianfranco Funari citò una frase che lui non riusciva a sopportare: “Il futuro è dei giovani”. Il giornalista e conduttore romano spiegava che questa mal sopportazione era legata alla fregatura contenuta in quella frase, vale a dire il fatto che essa rinviava sempre a un secondo momento l’affermazione delle nuove generazioni. Ecco perché lo stesso Funari, continuando nel suo ragionamento, disse che sarebbe sempre più corretto dire che “il presente è dei giovani”, perché è nel presente che si svolge la loro vita ed è nel presente che dovrebbero ottenere il loro spazio. Chissà cosa penserebbe oggi di fronte al clamore e alle polemiche scatenate dalla vittoria dei Maneskin all’Eurovision Song Contest 2021.

Un evento musicale, una band premiata, un concorso il cui esito dovrebbe rimanere confinato nel terreno della musica o, al massimo, in quello delle congratulazioni per una vittoria storica. Invece è successo il finimondo. Non solo sui social, ma ovunque. Persino in politica, nelle stanze delle diplomazia, sulle prime pagine dei quotidiani. Un dibattito ossessivo, spasmodico e, come sempre, divisivo. Da una parte la platea dei denigratori e dall’altra quella degli estimatori. La prima, composta da chi non ama il genere, il gruppo o la canzone, con le consuete e noiosissime affermazioni sulla qualità degli arrangiamenti e sulla debolezza delle parole, sul raffronto con i grandi nomi del passato. L’altra, composta da chi celebra una vittoria che mancava da un trentennio e apprezza lo stile anticonformista della band. In mezzo, quattro ragazzi che se la godono a vincere e a vivere il loro sogno di lavorare con la loro passione, ossia la musica.

Vincono tutto e lo fanno con una canzone che parla di ribellione. Magari non è stilisticamente perfetta, non ha un sound originale o maturo, né ha un testo particolarmente curato o colto, ma resta il fatto che è quantomeno qualcosa di molto diverso dalle estenuanti nenie sugli amori finiti o dagli artificiali e ripetitivi refrain machisti di qualche trapper che si finge maledetto. In ogni caso, è qualcosa che rompe uno schema. Anche per il modo di stare sul palco, di sfidare la forma e la censura bacchettona che ancora ulula davanti a un bacio tra due uomini (come hanno fatto due di loro durante l’esibizione). Sicuramente, anche a chi non trova nei Maneskin nulla di nuovo o rivoluzionario, soprattutto se paragonato alla storia del rock o alla musica internazionale, non dispiace che, per una volta, l’Italia mandi in Europa qualcosa di differente. Qualcosa che vince sovrapponendo i volti e i ritmi dei giovani ribelli Maneskin a quelli dell’ultimo vincitore italiano, Toto Cutugno.

Forse era ora di mostrare che anche in Italia esiste chi prova a fare rock e non ci sono solo i Bocelli e le Pausini, senza offesa per la loro musica e per chi la apprezza. Ecco perché è inutile (ma fa tenerezza) che i grandi buongustai musicali, quelli che valutano tutto con lo sguardo sprezzante del loro sapere, si accapiglino sull’idea che questa canzone non si possa definire rock o sull’ingenuità del testo, così come serve a poco dire che i Maneskin non sono i Led Zeppelin, gli AC/DC, Bob Dylan, Battiato e così via. Non lo sono, certo, magari non lo saranno mai. Ma ci sono e sono figli di questo tempo. Esistono, cantano e si divertono come matti mentre “la gente purtroppo parla”, anche quando “non sa di che cosa parla”, come ad esempio hanno fatto i media francesi e persino la ministra degli Esteri transalpina, che hanno gettato ombre su questi ragazzi e sulla loro vittoria. Al punto da inventare una storia sull’uso di droga, durante l’esibizione, da parte di uno dei componenti della band. Per non parlare poi dei propagandisti della tv Bielorussa, che hanno vomitato tutta l’omofobia del regime.

Una situazione assurda che ha spostato l’esito di una competizione canora sul piano politico e della diplomazia, portando anche la politica italiana a schierarsi per difendere la vittoria dei connazionali. Peraltro, è risultato surreale e perfino divertente vedere leader di schieramenti normalmente contrari a tollerare simili look e gesti di libertà, difendere la band dagli attacchi “stranieri”. Sono riusciti anche in questa impresa questi quattro ventenni romani, che sui social hanno ricevuto più critiche generalmente da utenti di età superiore ai 40 anni. Utenti che in realtà, al di fuori delle motivazioni apparenti, ai Maneskin intimamente riconoscono solo una colpa, la più grande, la più insopportabile: essere giovani e parlare linguaggi nuovi.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org