“Può spiegare alla Commissione, secondo lei, quali sono i motivi per i quali sono state commesse le due stragi di Capaci e di Via D’Amelio?”. “Secondo quello che so, sia l’omicidio di Falcone sia quello di Borsellino viene inquadrato senza ombra di dubbio nel discorso che uno era l’uomo più pericoloso: infatti, l’intelligenza del giudice Falcone è ben nota; non so se in altri campi era intelligente, ma nel combattere la mafia la sua capacità era indiscussa – e rappresentava quindi un elemento da eliminare – l’altro era il depositario di una cultura che allora non tutti i magistrati avevano”. Fu Luciano Violante, presidente della Commissione Antimafia, a porre quella domanda. Di fronte aveva Gaspare Mutolo, collaboratore di giustizia: “Sono stato il primo a correre il rischio di denunciare gli omicidi che io stesso ho commesso”, aveva sottolineato nel rivendicare il suo ruolo.

Asparinu – com’era noto nella Palermo del sacco – abbracciò la mafia a vent’anni, dopo aver fatto il meccanico entrando e uscendo di galera per piccoli reati, e non ha mai provato pudore nel parlare della sua carriera da mammasantissima: “Quanti omicidi ho commesso? Non ho tenuto il conto, Presidente. Ti dicevano: va e scanna quel cristiano, tu andavi e lo scannavi senza sapere nemmeno come si chiamasse e perché stesse morendo acciso. Io ricordo trenta tra omicidi e strangolamenti”. Fu molti anni dopo aver sparso quel sangue ad aver capito – a detta sua – che la mafia era cambiata: “Se uno guarda oggi alla mafia, dopo quello che ha fatto, la vede in maniera diversa, ma la mafia, fino agli anni Settanta, per come la ricordo e per come era la mia fantasia, era tutta diversa: i mafiosi erano le persone che comandavano, i saggi, […] e uccideva in maniera limitata, non come ora. Si sentiva dire dell’uccisione di qualcuno, ma ci si immaginava sempre che quello che moriva era il cattivo, e non che poteva essere il buono”.

A Mutolo, quindi, pare che la mafia da serie tv a un certo punto ha fatto impressione, e tanto valeva passare dall’altra parte, con “l’unica raccomandazione […] di rispettare le famiglie e di consentire ai figli di costruirsi un avvenire”. Fu il 1992 l’anno della redenzione: “Avevo fatto questa maturazione principalmente perché tutti i miei amici sono stati uccisi. Nel tempo sono stati uccisi tanti amici miei, nel 1982 tutti assieme, senza nessun motivo specifico. […] Quando sono entrato a far parte di Cosa nostra e mi sono trovato ad uccidere persone, pacificamente pensavo che c’era un motivo per uccidere una persona. […] Il mutamento, il ripensamento, è dovuto prima di tutto a queste persone morte senza motivo, alle quali ero molto affezionato”.

Insomma: mafioso pentito, come la storia ne ha consegnati altri alle cronache. Uomini che non sai come guardarli, ché il passato ha lasciato loro addosso un alone che induce alla diffidenza, sempre e comunque. Ammazzava, strangolava. Qualche giorno dopo aver parlato con Falcone, Falcone saltò in aria. Quarantottore prima della strage di via D’Amelio faceva i nomi a Borsellino nel cortile di un carcere a Spoleto, con la promessa di parlare in dettaglio per verbalizzare tutto. E poi Commissioni Antimafia, interrogatori. Carcere, tanto carcere, dove i giorni cadono dal calendario come foglie e la vita è un rullo che gira sempre uguale. A lui, però, in cella è capitato qualcosa che ha intaccato quell’alone, che ha modificato quel rullo. L’arte.

“Ho scoperto la passione per la pittura. È stato un compagno di cella, un calabrese, a insegnarmi i primi rudimenti. E la pittura ha molto mitigato la mia lunga detenzione in varie carceri d’Italia, dove ho trascorso tanti anni della mia vita. Se vuoi davvero fare il pittore devi avere passione, altrimenti rinuncia, mi diceva. Da allora non mi sono fermato più, ormai vivo per la pittura”.

Ed è finita che i suoi quadri hanno riempito i saloni delle mostre. A Giulianova, nei giorni scorsi, nel Loggiato del Sottobelvedere è stata inaugurata una nuova mostra. A volerla, guarda il caso, è stato Gabriellino Palestini, noto come “uomo Plasmon” per un carosello degli anni Sessanta, ma conosciuto probabilmente di più per i suoi trascorsi con la droga, trascorsi che l’hanno portato in un carcere dove conobbe Mutolo. I due divennero ottimi amici, al punto da spingere Palestini, oggi marinaio e detentore di record di voga, a fare il diavolo a quattro per fare calare la testa ai giuliesi: “Perché i giuliesi sono spesso restii alle novità, specie di questo tipo – ha detto – ma già la sera della presentazione mi sono reso conto che era un’iniziativa valida e che avevo fatto la scelta giusta”. E infatti il primo giorno s’è battuto subito cassa, con tre quadri venduti.

Non è che Mutolo ha usato l’arte come via di redenzione?, uno potrebbe chiedersi. Beh, in realtà Mutolo per lungo tempo i suoi quadri non li ha potuti firmare, e qualcun altro la pensata della redenzione a tempera o a olio l’aveva fatta, proprio a spese sue. Perché Luciano Liggio, che non ha mai teso la mano alla giustizia, in carcere s’era fatto il vestito buono dicendo che era cambiato: leggeva Dostojevskij prima di addormentarsi, studiava i filosofi presocratici e aveva scoperto l’arte, e all’arte si era avvicinato con una sessantina di tele, tele accese, luminose, con le campagne di Corleone, i boschi della Ficuzza, il cuore brullo della Sicilia. Solo che quei quadri non erano suoi, ma di uno che in carcere con lui c’aveva passato 10 anni: Gaspare Mutolo.

Mutolo lo rivelò nel ‘92, quando qualcuno provò a speculare sulle opere del Liggio artista. “Nemmeno una margherita sa dipingere”, disse allora Asparinu, demolendo l’immagine per certi versi redenta di Lucianeddu. Ha 79 anni, oggi, Gaspare Mutolo. Ha perso la moglie nel 2016 e, da padre di quattro figli, è pure nonno. Si porta addosso la puzza della mafia, ma i vestiti sono sporchi di colore. Per anni ha fatto l’artista al buio. Ci poteva morire, al buio, ma adesso i suoi quadri sono firmati, e al primo giorno di una mostra al centro dell’Italia ha venduto tre tele.

Certo, questo non cancella quel sangue caldo che ha calpestato una trentina di volte, ma fa riflettere. L’arte ha tirato fuori l’anima a un uomo che probabilmente aveva capito di non poterla più afferrare, avvinghiata com’era al demone della malavita. Quella stessa malavita che in questi giorni, mentre Palestini passeggiava fra i quadri dell’amico prima di aprire le porte al pubblico, si disperava per aver perso qualcosa come un milione di euro per i reperti che 350 fra carabinieri e poliziotti londinesi e del Baden-Württemberg recuperavano in Calabria, ammanettando un bel po’ di tombaroli. E guarda il caso: da un lato viene violentata, l’arte, nascosta e venduta sottobanco, dall’altro viene ammirata, esposta come ancora di salvezza e venduta alla luce del sole. Chè l’arte cambia gli uomini, se gli uomini cambiano.

Seba Ambra -ilmegafono.org