Gli allevamenti intensivi italiano sono una vera sciagura per l’ambiente e anche per le casse pubbliche. Questo, in sintesi, il risultato dell’inchiesta di Greenpeace, che svela la mappa degli allevamenti intensivi italiani segnalati nel Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti (E-PRTR) che emettono maggiori quantitativi di ammoniaca (NH3). Quest’ultimo è un inquinante dannoso per l’ambiente e la salute umana e contribuisce alla formazione delle polveri fini. L’organizzazione ambientalista ha geolocalizzato 894 allevamenti che, nel 2020, hanno emesso quantità maggiori di ammoniaca. Gli allevamenti appartengono a 722 aziende e il 90% di essi ha ricevuto fondi pubblici attraverso la PAC, per un totale di 32 milioni di euro solo nel 2020. L’obiettivo dell’inchiesta di Greenpeace era proprio quello di scoprire quali sono gli allevamenti più inquinanti, ma soprattutto quante risorse pubbliche ricevono per continuare a inquinare l’atmosfera.

Per costruire la mappa, lo studio è partito dal Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti (E-PRTR), che include anche gli allevamenti che dichiarano emissioni per più di 10 tonnellate di ammoniaca (NH3) all’anno. Oltre ai dati di cui sopra, sono state identificate le 722 aziende alle quali appartengono gli 894 allevamenti: alcune di queste sono riconducibili a gruppi finanziari come il colosso assicurativo Generali, a nomi noti del food come Veronesi SpA, holding che comprende i marchi Aia e Negroni, o a grandi aziende della zootecnia come il gruppo Cascone. La mappa di Greenpeace mostra come le regioni della Pianura Padana siano quelle maggiormente a rischio. Qui, infatti, ha sede il 90% degli allevamenti italiani che, nel 2020, hanno emesso più ammoniaca. Capofila è la Lombardia, dove si trova oltre la metà degli stabilimenti che emettono grandi quantità di ammoniaca, seguita da Emilia Romagna e Veneto.

L’ammoniaca è uno degli inquinanti più pericolosi, “una sostanza – sottolinea Greenpeace – rilasciata principalmente dalle attività agricole che concorre in maniera importante a formare lo smog che respiriamo: una volta liberato in atmosfera, questo gas si combina con alcune componenti (ossidi di azoto e di zolfo) generando le pericolose polveri fini. Dati alla mano, in Italia gli allevamenti sono la seconda causa di formazione del particolato fine (responsabili di quasi il 17% del PM2,5), più dei trasporti (14%) e del settore industriale (10%), preceduti solo dagli impianti di riscaldamento (37%)”. La mappa che geolocalizza i maggiori emettitori di ammoniaca è quindi “cruciale per sapere quanto è compromesso l’ambiente in cui viviamo, visto che l’elevata presenza di polveri fini comporta pesanti ricadute per la salute, come abbiamo mostrato in un precedente studio condotto con ISPRA”.

Incrociando i dati del Registro europeo forniti da ISPRA con gli elenchi dei beneficiari dei fondi della Politica Agricola Comune (PAC), è emerso inoltre che quasi 9 aziende su 10, tra quelle che possiedono allevamenti segnalati nel Registro, hanno ricevuto finanziamenti pubblici, per un totale di 32 milioni di euro nel 2020, per una media di 50.000 euro ad azienda. Ma questa è solo la punta dell’iceberg, visto che, come spiega Greenpeace, “la normativa attualmente in vigore consente di monitorare, attraverso il registro E-PRTR, solo le emissioni degli stabilimenti più grandi, in grado di ospitare oltre quarantamila polli, duemila maiali o 750 scrofe, escludendo completamente gli allevamenti di bovini, nonostante siano a loro volta responsabili di rilevanti emissioni di ammoniaca e metano”. Rimangono fuori anche tutte quelle aziende che, pur essendo sotto la soglia minima che obbliga alla comunicazione dei dati, concorrono alle emissioni totali del settore. Nel 2020, infatti, il 92% delle emissioni di ammoniaca prodotte dagli allevamenti non ha trovato “responsabili” nell’E-PRTR, perché non monitorato.

Questa dannosa lacuna, denuncia l’associazione ambientalista, “segnala l’urgenza di monitorare e regolamentare un maggior numero di allevamenti, come previsto dalla proposta della Commissione UE di modifica della direttiva europea sulle emissioni industriali. Una proposta, però, che ha già scatenato violente reazioni da parte di esponenti politici e di alcune organizzazioni di categoria”. Greenpeace, quindi, attraverso questa inchiesta, denuncia l’assurdo finanziamento pubblico ad attività private che producono effetti disastrosi sull’ambiente. Le polveri fini (PM2,5), infatti, sono responsabili di decine di migliaia di morti premature ogni anno: l’Agenzia Europea per l’Ambiente ha stimato quasi 50.000 vittime in Italia nel solo 2019. “Com’è possibile – si chiede Greenpeace – ridurre drasticamente la diffusione di queste sostanze, se, parallelamente, si continuano a finanziare i modelli zootecnici intensivi e inquinanti che le producono?”.

“Sembra che in Italia – conclude l’associazione ambientalista – si faccia finta di ignorare che gli allevamenti intensivi sono già da anni considerati ‘attività insalubri di prima classe’, e che pertanto servono misure per proteggere la salute delle persone e l’ambiente dalle loro pericolose emissioni. Per farlo in modo efficace, occorre pianificare una riduzione del numero degli animali allevati, come sta già accadendo in altri Paesi europei. Rimandare questi provvedimenti, significherebbe ignorare gli impatti su salute e ambiente legati all’inquinamento prodotto dagli allevamenti intensivi”. Per chiedere lo stop degli allevamenti intensivi, è possibile firmare (clicca qui) la petizione di Greenpeace.

Redazione -ilmegafono.org