“Non sono un artista, sono uno le cui mani non riescono a star ferme”. Queste parole di Carlo Gilè fanno immediatamente percepire la profonda umiltà che lo contraddistingue. Ed è (quasi) spiazzante. Carlo è un siracusano, figlio della “memoria storica” dell’INDA, Concetto Gilè, cresciuto in quel via vai conturbante che solo il Teatro Greco di Siracusa in preparazione delle rappresentazioni classiche sa essere. “I miei genitori si sono conosciuti in quelle scalinate. Mio padre stava lavorando agli ultimi preparativi prima della messa in scena e vede da lontano un’amica che era andata a vedere lo spettacolo. Allora va a salutarla e con lei c’era mia madre. Mi sento un po’ figlio di quel teatro e anche se mio padre non c’è più io continuo a sentire le sue pacche sulle spalle ogni volta che sono lì”.

Una vita per il teatro, per la manualità del macchinista, per le colossali scenografie che trasformano, reinventano e reinterpretano, anno dopo anno, la manifestazione culturale più antica portata avanti nella città aretusea. E cosa succede quando quel ragazzo “le cui mani non riescono a star ferme”, dopo lo spegnimento di quel faro paterno che sempre lo accompagnava, si ritrova solo con se stesso durante il lockdown che ha bloccato il mondo intero da marzo 2020?

Sembra vagare tra l’assurdo e il paradossale, ma è proprio da questo momento buio che nascono i coloratissimi cartorilievi di Carlo Gilè. Ritrovando in un cassetto dello studio alcuni cartoncini colorati che riportano alla memoria giochi dell’infanzia iniziati dalla madre che, da sublime educatrice, ha sempre cercato di stimolare la propria prole. Così è iniziato il percorso evolutivo di questo progetto, che ad oggi ha tutte le carte in regola per presentarsi al mondo.

I cartorilievi di Gilè sono una storia in continua evoluzione. Ognuno di loro è un racconto a sé stante, fatto di passato, presente e futuro. Senza però farsi mancare le “storie condivise”: dittici o trittici pensati per vivere l’uno in simbiosi con l’altro. Quasi quanto lui riesca ad entrare in simbiosi con i suoi affetti più cari che lo accompagnano da sempre nel suo percorso di vita. Dalle memorie infantili ai progetti futuri, queste opere d’arte hanno ognuna racchiusa in sé tutti gli elementi indispensabili per renderle uniche. Richieste d’aiuto inizialmente, braccia che aiutano poi. È incredibile, da esterno, notare come una proposta, arrivata quasi per gioco (anche se più una necessità in quel particolare momento), riesca a trasformarsi ,con il tempo necessario, e diventare un’ancora di salvezza, un porto sicuro per chi le crea.

“Io arrivo in studio, metto la musica ed entro in una sorta di trance. Non sono io che dico alle mani cosa fare, ma sono loro che guidano me”, ed è questo il punto di forza. Da Picasso, a Mondrian, a Mari, a Pomodoro, a Klimt, Mirò, alla Bauhaus. Attraversano le correnti avanguardistiche dello scorso secolo, riconoscibili ad ogni singolo angolo, però sempre cercando di andare oltre. La carta, elemento essenziale che Carlo Gilè eleva ad elemento nobile per la sua praticità, manualità e leggerezza. Così apparentemente fragile ed effimera, la carta assume un nuovo valore, nuova potenzialità, nuova energia. La sua forza? La semplicità.

Quindi cosa vogliono raccontare queste opere? Bella domanda. Il compito più difficile per un artista contemporaneo è quello di riuscire a non dare un significato unico a ciò che crea, ma essere in grado di portare lo spettatore a porsi le giuste domande e darsi le proprie risposte. Ed in questo, Carlo Gilè è un maestro. È a dir poco commovente quanta energia, genuinità e voglia di urlare al mondo ciò che si può essere al di fuori dei canoni, riescano ad essere palesi in una tridimensionalità voluta, cercata, studiata e sofferta. Commovente che tutto ciò possa trovarsi in quello che, apparentemente, può simboleggiare un pezzo di cartoncino colorato. Gli studi e il diploma all’Accademia delle Belle Arti di Siracusa in Scenografia, i laboratori seguiti a Roma hanno influito tantissimo alla iniziazione di questo progetto. La voglia di avere comunque un qualcosa da dire, nonostante i blocchi dei soliti mezzi di comunicazione, poi, ha fatto il resto.

Dal vivo le opere si presentano come quinte di palcoscenici immaginari nei quali contestualizzare ognuno le proprie storie. Volumi voluti, altri lasciati quasi al caso dalle luci che li investono. L’evoluzione stilistica portata avanti in questo anno è palese: da volumi tridimensionali quasi occasionali sparsi qua e la sulla superficie, ad una totale copertura di quest’ultima, in un’esplosione di colori e forme che, rimandando agli Stomachion di Archimede, fanno rivivere una continuità tra presente, passato e futuro, unendo il concetto contemporaneo di spazialità a quello ellenico di equilibrio competitivo e cromatico, trovando così una nuova dimensione che riesce in maniera sublime a racchiudere tutta la storia e la cultura della città di Siracusa. Semplicemente così, lasciando andare quelle mani che, per fortuna, non riescono a star ferme.

Sarah Campisi -ilmegafono.org