C’è un vuoto oscuro nella democrazia italiana. Un vuoto che non riesce quasi mai a emergere, a diventare notizia da prime pagine, da dibattiti infiniti, da manifestazioni di piazza. Un vuoto che rimane tale, ricoperto di buio fitto, lo stesso con il quale inghiotte dignità e diritti dei quali alla maggior parte dei cittadini importa poco o nulla. La ragione di questa indifferenza è semplice: i diritti sono quelli di persone che hanno violato la legge, sono i reietti, le cosiddette mele marce. Sono i detenuti, quelli che hanno la sfortuna di scontare la pena nel malandato sistema carcerario italiano. Negli ultimi giorni, in pochi hanno dato notizia degli sviluppi di una inchiesta relativa al presunto pestaggio dei detenuti che sarebbe stato compiuto dagli agenti di polizia penitenziaria del carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Una vicenda avvenuta il 6 aprile scorso, denunciata dai familiari dei carcerati e anche dall’Associazione Antigone. Denunce che, a giugno, hanno portato la procura a iscrivere 57 agenti nel registro degli indagati.

In quella occasione, alcuni di quegli stessi agenti erano persino saliti sui tetti per protestare contro la decisione della procura e le perquisizioni dei Carabinieri. Non era mancato neanche il solito sciacallaggio politico, con il leader della Lega, Salvini, che si era recato in carcere per testimoniare solidarietà ai poliziotti penitenziari, così, tout court, senza aspettare indagini o accertamenti dei fatti. Fatti che sono al vaglio degli inquirenti e che oggi sembrerebbero arricchirsi di prove, testimoniali e video. Ma andiamo con ordine. Tutto sarebbe avvenuto il 6 aprile, il giorno dopo una protesta pacifica dei detenuti, spaventati per il rischio sanitario, legato alla notizia che ci sarebbe stato un contagiato dentro la struttura di detenzione. Una protesta rientrata rapidamente, con l’accoglimento della loro richiesta di parlare con il magistrato di Sorveglianza, per avere rassicurazioni in seguito. Non c’è alcun legame, dunque, come ha sottolineato l’associazione Antigone, che da anni si occupa della tutela dei diritti di chi si trova in carcere, con le proteste violente o le aggressioni nei confronti del personale penitenziario che hanno colpito le prigioni italiane nel periodo più caldo dell’emergenza Covid.

Secondo le testimonianze raccolte e le denunce, circa 400 agenti sarebbero entrati nel reparto Nilo del penitenziario, in tenuta antisommossa, per quella che è spiegabile solo come una barbara ritorsione per la protesta pacifica (la solita battuta delle sbarre) avvenuta il giorno precedente. Un intervento non motivato da alcuna situazione di tensione reale, fermo restando che, anche in caso contrario, nulla giustificherebbe quanto sarebbe accaduto dopo. Le testimonianze parlano infatti di violenze inaudite, pestaggi, calci, pugni, umiliazioni. Molti detenuti sarebbero stati costretti a denudarsi, a cantare inni alla polizia penitenziaria, picchiati selvaggiamente se si rifiutavano di spogliarsi (sarebbe accaduto nei confronti di un uomo iraniano), lasciati in una pozza di sangue. Anche un detenuto disabile, in carrozzina, sarebbe stato picchiato. Dopo il pestaggio, inoltre, i detenuti sarebbero stati costretti a radersi barba e capelli. Ma non solo: nei giorni successivi alcuni di loro sarebbero stati spostati in altri istituti, ad altri sarebbero state impedite le telefonate, altri ancora sarebbero stati minacciati di subire altre ritorsioni qualora avessero provato a denunciare o avvisare familiari o legali.

Insomma, il quadro che emerge, qualora confermato, è quello dell’ennesima macelleria messicana all’interno di un luogo dello Stato. L’ennesima in un Paese che, di tanto in tanto, mostra la sua faccia più cupa e inquietante. Un vuoto funesto nel quale precipitano i diritti essenziali, la democrazia, l’umanità. La magistratura continua a indagare e la giustizia proverà a fare chiarezza (sperando che le venga consentito fino in fondo), per capire chi ha umiliato lo Stato abusando del proprio potere e attuando una condotta che configurerebbe la fattispecie di reato di tortura. Ancora una volta. Non è bastato il caso Cucchi, non sono bastati i casi nei quali uomini in divisa hanno sporcato quella divisa e i valori democratici ai quali dovrebbero ispirarsi. Non è bastata la vergognosa scia di depistaggi smascherati, di vigliaccheria, di crudeltà vissuti sulla pelle di un ragazzo, Cucchi, che, per una parte di questo Paese e della sua politica, valeva poco e non meritava di vivere, solo perché spacciava o usava droghe.

L’Italia è ancora ferma lì, a quella violenza accettata, a quella incapacità di uscire da un processo di responsabilizzazione di chi dovrebbe rappresentare lo Stato e non gli istinti più infami e bestiali degli uomini. L’Italia è ancora ferma all’idea che i diritti non debbano valere per tutti, ma debbano essere assegnati di volta in volta solo a chi ci piace, a chi ha i nostri stessi codici e vissuti. La negazione, in pratica, del diritto stesso. Le carceri italiane sono teatro di violenze, suicidi, vicende oscure, sono luogo di pena, luogo sovraffollato e infernale che ha dimenticato la sua funzione primaria di recupero e riabilitazione. Fatta eccezione per alcune realtà che lavorano bene, la gran parte delle nostre strutture detentive si trova in condizioni bestiali. Vicende come queste ci riportano indietro, ma soprattutto fanno paura. Ancor più paura fanno i silenzi, il fatto che, con la scusa del Covid, si è taciuto su quello che, qualora le indagini dovessero darne conferma, sarebbe un atto criminale di dimensioni enormi compiuto sulla pelle di esseri umani.

Esseri umani che meritano la stessa tutela e lo stesso rispetto di chi in carcere non ci vive. Sarebbe bene chiarirlo, sarebbe bene che politicamente, mediaticamente, culturalmente questo concetto venisse ribadito. Chi delinque e viene assicurato alla detenzione dello Stato ha il diritto di essere trattato umanamente e di ricevere una seconda possibilità. E se qualcuno viola la sua dignità e i suoi diritti va punito e pubblicamente condannato. Altrimenti si continuerà a vivere circondati da questo vuoto che puzza di condanna a morte, si continuerà a vivere minacciati da questo buco nero del diritto e della democrazia dentro al quale, alla fine, potremmo finirci tutti, anche quelli che se ne infischiano e pensano che l’indifferenza li salverà.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org