“Dov’è Giovanni?”. Sono le ultime parole di Francesca Morvillo, raccolte da un poliziotto durante il trasporto in ospedale, dopo che, alle 17.57 del 23 maggio 1992, un tratto dell’autostrada A29, nei pressi di Capaci, vicino Palermo, è stato fatto saltare in aria, con un attentato di stampo terroristico-mafioso, uccidendo il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti di scorta Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Sono passati trent’anni dal quel giorno e ciascuno di noi ricorda esattamente cosa stesse facendo in quel momento e quale turbamento causò quella strage. Ciascuno di noi ricorda cosa stesse facendo anche due mesi dopo, il 19 luglio 1992, quando cosa nostra massacrò il giudice Paolo Borsellino e i suoi agenti di scorta. Tutto il Paese ricorderà e commemorerà Giovanni Falcone, conosciuto non solo in Italia ma in tutto il mondo per la sua lotta alla mafia e per essere stato lasciato solo. Lui stesso scriveva, nel suo libro “Cose di cosa nostra”: “Si muore generalmente perché si è soli o perché si è entrati in un gioco troppo grande. Si muore spesso perché non si dispone delle necessarie alleanze, perché si è privi di sostegno”.

Le stragi del 1992, anno drammatico e cruciale, hanno cambiato per sempre la storia dell’Italia. Nei teatri italiani, è in scena “L’ultima estate. Falcone e Borsellino trent’anni dopo”. Il testo è di Claudio Fava, la regia di Chiara Callegari, Simone Luglio veste i panni di Giovanni Falcone, Giovanni Santangelo quelli di Paolo Borsellino. Sono passati trent’anni, appunto, e con questo testo l’autore ripercorre gli ultimi mesi di vita dei due magistrati. Fatti noti e meno noti, pubblici e intimi, come le stazioni di una via crucis, per raccontare, fuori dalla cronaca e lontano dalla commiserazione, la forza di quegli uomini, la loro umanità, il loro senso profondo dello Stato. Ma anche l’allegria, l’ironia, la rabbia e, soprattutto, la solitudine a cui furono condannati.

“In questo paese ricordare gli ammazzati è come andare a messa, una liturgia di verbi, di gesti recitati a memoria…E invece quei morti ci chiedono altro – dice Borsellino in una delle ultime scene – essere ricordati per come vissero, non solo per come morirono”. Niente celebrazioni, nessuna parola o mezzuccio per contribuire a trasformare le loro figure in icone cristallizzate. Fava ci racconta Giovanni Falcone e Paolo Borsellino nella dimensione più autentica, vera e quotidiana, che nulla toglie al senso della loro battaglia, ma li completa come esseri umani. Durante la sua vita, Giovanni Falcone venne costantemente calunniato e delegittimato, anche da chi, oggi, finge di onorarne la memoria. Come non ricordare le parole della poetessa Alda Merini che scrive: “La mafia sbanda, la mafia scolora, la mafia scommette, la mafia giura che l’esistenza non esiste, che la cultura non c’è, che l’uomo non è amico dell’uomo. La mafia è il cavallo nero dell’apocalisse che porta in sella un relitto mortale, la mafia accusa i suoi morti. La mafia li commemora con ciclopici funerali: così è stato per te, Giovanni, trasportato a braccia da quelli che ti avevano ucciso”.

I processi sulla strage, le presunte connivenze di alcuni uomini politici con cosa nostra, la discussa “trattativa” tra lo Stato e la mafia (soprattutto dopo la strage di via D’Amelio), i processi contro Totò Riina e Bernardo Provenzano, le loro condanne, le “dichiarazioni” di Giovanni Brusca, la condanna, nel 2020, di Matteo Messina Denaro all’ergastolo, in contumacia, per il reato di strage, hanno riempito pagine e pagine dei quotidiani italiani, senza riuscire a dare il giusto merito, il giusto onore, a volte il giusto rispetto a quelle cinque persone massacrate perché hanno svolto con determinazione il loro lavoro, la loro professione. Francesca Morvillo era una magistrata. Era compagna e moglie del giudice Falcone. Dopo il fallito attentato dell’Addaura, Falcone voleva divorziare da Francesca per salvarla, per evitare che fosse anche lei un obiettivo. Ma Francesca volle restare accanto a lui, sempre e comunque.

Emblematica dell’amore per Giovanni è la lettera che Giovanni Paparcuri, collaboratore di Falcone che sopravvisse all’attentato a Rocco Chinnici, trovò in un libro che Francesca Morvillo aveva regalato al marito. “Giovanni, amore mio, sei la cosa più bella della mia vita. Sarai sempre dentro di me così come io spero di rimanere viva nel tuo cuore, Francesca”. L’amore rimane la forza e la speranza. L’amore che ha unito Giovanni e Francesca e l’amore che ha unito Vito Schifani e Rosaria Costa, fotografata da Letizia Battaglia in bianco e nero, metà luce e metà ombra, lei che ai funerali pronuncia quelle parole che tutti conosciamo.

Ricordo quel 23 maggio 1992, ero a teatro, in Sicilia. Lo spettacolo viene interrotto bruscamente. Il regista comunica quanto accaduto. Ricordo un silenzio assordante e poi un lunghissimo, fragoroso, doloroso applauso. Tutti in piedi, tra le lacrime. Niente più spettacolo, la tragedia si era consumata. E non sapevamo ancora che si sarebbe ripetuta.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org