Santo Panzarella, detto Santino. Aveva 29 anni quando il 10 luglio 2002 scomparve nel nulla da Curiga (CZ). Fu visto l’ultima volta alla guida della sua Alfa Romeo 164 trovata poi incendiata nei pressi di un fiume. Vittima della lupara bianca. Santo era diventato l’amante della moglie di un boss di ‘ndrangheta, Santo si era innamorato, ma questo amore, questa passione, avevano infranto il codice mafioso. Per questo motivo andava punito. E fatto sparire. Le indagini portarono all’arresto di tre persone, Tommaso Anello di Filadelfia (VV) e i fratelli Vincenzino e Giuseppe Fruci, con le accuse di omicidio e distruzione di cadavere. Secondo gli investigatori, il corpo sarebbe stato fatto a pezzi, dato che una clavicola di Panzarella è stata ritrovata in un torrente che confluisce nel lago dell’Angitola. Nel 2009, gli imputati sono stati assolti per “non aver commesso il fatto”. Il delitto è rimasto impunito.

La madre di Santo combatte ancora oggi per ottenere giustizia. Quasi vent’anni dopo, chiede ad alta voce: “Rompete l’omertà sulla sorte di mio figlio”. Angela Donato, la madre, urla il suo dolore chiedendo verità: “Non capisco come mai il risultato in sede di dibattimento sia stato capovolto e coloro i quali erano accusati di avere assassinato in modo barbaro mio figlio, per via della relazione che aveva allacciato con la moglie di un boss, siano stati assolti. Non capisco, e vorrei tanto poterlo fare”.

A far sparire Santino, una volta scoperto il tradimento – secondo quanto reso noto da alcuni pentiti – il fratello di Rocco Anello (considerato il “padrone” dell’Angitolano), Tommaso, e i fratelli Fruci, appunto. E sempre i collaboratori di giustizia raccontano come il capomafia sia stato costretto a mantenere vivo il suo matrimonio per scongiurare conseguenze giudiziarie per quel delitto rimasto, finora, impunito. Francesco Michienzi, ex picciotto oggi considerato traditore, fu testimone oculare diretto di quella barbara uccisione, ma le sue rivelazioni non bastarono per far condannare i presunti esecutori materiali: l’assenza di certezze su un osso che si riteneva appartenesse a Panzarella – quello che diede il titolo al libro di Cristina Zagaria, “L’osso di Dio” – indusse la Corte d’Assise di Catanzaro ad assolvere tutti gli imputati.
Di questa tragica storia si è occupato l’attore Angelo Colosimo con il monologo “Simu e Pùarcu”, che fa parte di una trilogia, da lui scritta e interpretata in calabrese, che include anche “Bestie Rare” e “L’Agnello di Dio”.

“Simu e Pùarcu” è prodotto da Wobinda, con la regia di Roberto Turchetta. Un colpo allo stomaco per la crudezza della storia, dei fatti e delle parole narrate. Un’interpretazione senza artifici scenici, essenziale, dolente. Disgusto, stupore, amaro in bocca, sorrisi beffardi, senso di nausea, fastidio e poi dolore, tanto dolore e rabbia. Queste le sensazioni provate. Un teatro viscerale quello di Angelo Colosimo, autore e interprete di questo monologo che chiude la trilogia dedicata alla famiglia raccontata nelle sue sfaccettature più atroci e agghiaccianti. Nell’opera torna a lavorare sull’archetipo letterario della famiglia con un’accezione allargata alle dinamiche ‘ndranghetistiche.
“Simu e Pùarcu” conduce una doppia indagine: il caso archiviato e mai risolto della vittima e il tentativo di analizzare il contesto entro cui si compie il delitto di mafia, un contesto quasi tribale.

Una famiglia nella famiglia si riunisce nel ventre di una campagna calabrese per uccidere un maiale, un porco. È una ritualità dovuta e necessaria, legata alla tradizione più arcaica e contadina, ferina e ancestrale. L’uccisione di un pùarcu serve a sfamare bocche fameliche e a dare sostentamento. Poiché la vittima, si era comportata da porco, profanando la moglie del boss, andava ucciso come un porco. Con uno spostamento di significato, l’immagine rappresenta l’idea della gestione del potere, del comando (in Sicilia si usa dire “cumannari è megghiu di futtiri”) basata su tentacoli parentali, sulla Famiglia che in Sicilia diventa cosa nostra, dove tutti hanno ruoli da rispettare e che anela a tenere le cose sempre uguali. La vendetta è l’unico spiraglio di cambiamento, l’unica soluzione possibile, l’unico “lavacro” all’offesa subita. Le regole sono chiare: chi sbaglia deve pagare.

E qui mi vengono in mente le parole di Nicola Gratteri e Antonio Nicaso in “Fratelli di sangue” del 2007: “La forza della ’ndrangheta sta nella sua natura, nella impenetrabilità della propria struttura e nella forza dei legami primari. Pentirsi significa tradire i propri congiunti e questo comporta problemi di ordine morale e psicologico assai più pesanti della paura di vendette e ritorsioni”. Di questa tragica storia sono venuto a conoscenza in Sicilia, durante la Settimana della Legalità che ricorda due magistrati uccisi in modo barbaro e meschino.

Il 21 settembre 2021 mi trovavo a Canicattì, in Sicilia, il mio paese di origine. Mi trovavo in Sicilia per risolvere alcune questioni familiari. Mi trovavo a Canicattì in un momento particolare. Quel giorno non era un giorno qualsiasi. Quello stesso giorno di trentuno anni fa, veniva ucciso dalla Stidda (l’altra faccia della stessa medaglia), un operatore di giustizia, il Giudice Ragazzino, Rosario Livatino, canicattinese come me. Ricordo perfettamente il giorno della sua morte, 21 settembre 1990. La scuola era ricominciata da poco e quando arrivò la notizia del suo massacro ci trovammo tutti increduli, sconvolti, attoniti. Chi era questo giudice? Nessuno di noi sapeva della sua esistenza. Il 25 settembre di due anni prima, era stato assassinato il giudice Antonino Saetta, primo magistrato giudicante ad essere ucciso, insieme al figlio Stefano, un altro giudice di Canicattì.

Adesso la mafia colpiva ancora. In poco tempo arrivò la notizia che si trattava di Rosario Livatino e che abitava con i genitori in una casa del Viale Regina Margherita. In poco tempo ci trovammo davanti la casa di papà Vincenzo e mamma Rosalia; il portone aperto, gente che entrava e usciva da quel portone, i vigili urbani, i carabinieri, la polizia di Stato. Rimanemmo muti, silenti, come fossimo dentro una bolla, in quel mattino di sole di settembre. Ricordo ancora la luce di quel giorno e ricordo i funerali nella Chiesa di San Diego, io, ragazzo di sedici anni, in mezzo alla folla con un mio compagno di classe, le lacrime agli occhi e il passaggio della bara con la sua toga, i giudici Falcone e Borsellino presenti e tante, tantissime persone.

Ho rivissuto quel giorno anche a maggio di quest’anno, quando ho visitato la casa di Rosario, quando ho potuto toccare, provando un brivido di emozione, la sua toga con le mia mani, quando ho visto la sua scrivania, le sue cose, quando ho ascoltato le parole di mia madre che ricordava Rosario da piccolo, nella terrazza, col suo triciclo. Il 21 settembre 2021, proprio a Canicattì, nel giorno del ricordo del sacrificio di Rosario, ho visto, ascoltato, respirato, il monologo di Angelo Colosimo, che, conosciuto a Bologna, ho ritrovato presso il Centro Culturale San Domenico, nel chiostro di un vecchio convento del Seicento ristrutturato, inserito in una serie di eventi per ricordare il valore della legalità e della giustizia; i valori per cui Rosario ha vissuto e si è immolato.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org