Spiagge, monumenti, siti di valore inestimabile, città e centri storici: la ricca industria dei grandi eventi non risparmia nulla. Con la complice “assistenza” di istituzioni, enti di tutela, imprenditori, organizzazioni di categoria e perfino associazioni ambientaliste, è sempre possibile scardinare qualsiasi vincolo pur di fare spettacolo e raggranellare profitto, ammantando peraltro ogni iniziativa con una retorica zeppa di mielosa ipocrisia. In questi giorni, mentre assistiamo alle drammatiche conseguenze dei danni gravissimi prodotti dall’impatto dell’uomo sul clima e sull’ambiente, l’industria dello spettacolo, in particolare quella dei concerti, continua a inseguire la tendenza dei grandi eventi in luoghi non adeguati e dagli equilibri molto delicati. Due casi su tutti. Il primo, di cui si è parlato nei mesi scorsi, è la serie di concerti (tra cui Baglioni, Nannini, Mannoia, Elisa, Einaudi) al teatro greco di Siracusa, uno dei più antichi al mondo, con la sua pregiata pietra originaria altamente friabile, che lo rende imparagonabile a luoghi come il teatro di Taormina o l’Arena di Verona, le cui sedute sono state ricostruite in epoca moderna.

Nel meraviglioso sito siracusano, patrimonio dell’Umanità, già si svolgono, per due mesi, le rappresentazioni classiche organizzate dalla Fondazione INDA, spettacoli che, per la loro tipologia e con le dovute precauzioni adottate (come una speciale copertura dei gradoni), hanno un impatto ridotto e tollerato sulla salute della pietra. Con la stagione concertistica, affidata a società private, voluta dall’assessorato ai Beni Culturali, “sponsorizzata” dal Comune di Siracusa e da molte categorie imprenditoriali della città, si apre invece uno scenario di rischio elevato per la salute e il futuro del teatro. Il prolungamento della copertura, le vibrazioni e la potenza delle emissioni sonore, anche il semplice ondeggiamento del pubblico, oltre alla tipologia dello spettacolo e dello stesso pubblico, sono tutte minacce certe per il deperimento della pietra.

Un allarme lanciato dagli archeologi e condiviso da altri studiosi e ricercatori, che però non ha fermato la macchina dell’organizzazione. In un tripudio di voci stizzite e irritate nei confronti degli studiosi, ossia i soli che possiedono la competenza per stabilire il rischio che il teatro corre, il caos delle posizioni ha creato solo un po’ di rumore, davanti a una città distratta, che presto ha dimenticato la querelle e permesso di oscurare l’inquietante ambiguità sulle procedure autorizzative. La sovrintendenza tace e al massimo bisbiglia, lontano dai microfoni, di essere stata coinvolta quando tutto era già deciso (e ci chiediamo perché non abbia alzato la voce…). Il parco archeologico non solo tace, ma poche settimane dopo la polemica sollevata ha perso il suo direttore, sostituito da uno nuovo. Insomma, mettendo insieme i pezzi del puzzle, si capisce che a volere questa stagione concertistica è stata la politica, quella regionale (con una commissione ad hoc nella quale le sovrintendenze non hanno alcun potere reale) e quella locale. In molti casi, entrambe condividono legami ideologici e “spirituali” molto forti.

E le autorizzazioni? I passaggi previsti dalla legge? Tutto a posto, ripetono le istituzioni. Senza però dare alcun dettaglio. A Siracusa, alla fine, saranno quasi tutti contenti, molti hanno già i biglietti per i concerti in mano, e al diavolo la tutela della storia, dell’identità e della dignità di questa città. Fa sorridere il fatto che vengano organizzate iniziative con la città di Corinto, durante le quali si spendono parole e sogni di grandezza, ma si omette di informare gli eredi dei fondatori di Siracusa che la sopravvivenza dell’antico e meraviglioso teatro greco è minacciata seriamente in nome del profitto e del divertimento di alcuni.

Ma a dire il vero anche fuori da Siracusa le cose non vanno meglio. Diverse spiagge italiane dovranno, infatti, fare i conti con un’altra follia collettiva, il Jova Beach Party, scattato il 2 luglio da Lignano Sabbiadoro. Un evento gigantesco, con migliaia di persone in spiaggia a ballare e cantare per ore con il loro beniamino, un po’ cantautore, un po’ deejay, un po’ (tanto) radical chic. L’ambientalismo di facciata, blindato dalla partnership con il Wwf, trova la sua celebrazione in un evento pieno di musica, ospiti internazionali e un pubblico fatto (almeno si dice) di gente che ama l’ambiente, tiene pulita la spiaggia, adotta condotte ecosostenibili nella propria vita quotidiana (come racconta in modo stucchevolmente mellifluo un articolo di Repubblica). Gente e leader talmente ambientalisti da non rendersi conto che l’ecosistema marino, spiagge incluse, è già molto fragile e che non è solo questione di pulizia ma di molto altro.

L’insistenza di molte specie protette, la vicinanza di queste arene “canterecce” ad aree naturali importanti, la biodiversità presente nelle spiagge, al netto della speranza nella civiltà del pubblico, sono tutti elementi molto più importanti del rifiuto ben infilato nel cestino. Le emissioni sonore, la presenza contemporanea di migliaia di persone, le luci e tanto altro che deriva da una tale macchina dello spettacolo creano danni che, forse, il Wwf dovrebbe valutare meglio. Perché se in molte oasi di nidificazione delle tartarughe si fa attenzione a qualsiasi cosa, non si capisce come mai poi si appoggi e si sostenga un obbrobrio simile. Non basta la facciata ambientalista di Lorenzo: davanti a quello che sta accadendo serve la concretezza degli scienziati naturali e di chiunque si occupa realmente di tutela. Il profitto non può passare davanti a tutto e nemmeno a questa bulimica ossessione di divertimento che sembra aver rimbecillito l’Italia.

Sia chiaro, cantare, ballare, stare insieme sotto a un palco è qualcosa che tutti noi amiamo (anche se al momento bisogna stare attenti ai contagi), ma quello che non è comprensibile è perché non farlo in posti adeguati, come stadi, porti, campi volo, ex siti industriali bonificati e così via. Perché l’industria musicale ha deciso di invadere spazi già a rischio, fragili e dal valore inestimabile? Da dove nasce questa smania di portare l’elefante dentro la cristalleria? A chi giova? Forse è più magico, forse è più funzionale al marketing e alle foto sui social, certo, ma ne vale davvero la pena? Ce n’è davvero bisogno? Il leggendario e mastodontico festival di Woodstock, d’altra parte, si teneva in un grande terreno privato di una cittadina americana, non certo a Yellowstone o nel Grand Canyon. Eppure è entrato lo stesso nella storia.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org