Un inferno senza regole, missili che cadono su scuole e ospedali, uccidendo innocenti, bambini, volontari, cittadini di un mondo distrutto, sgretolato, quale è la Siria. Le vittime, un ospedale di Msf raso al suolo, l’accesso alle cure sanitarie adesso negato a più di 40 mila persone, in una zona in pieno conflitto. Una tragedia umanitaria che urla sotto le macerie di una situazione drammatica, rispetto alla quale le uniche risposte sono gli avvertimenti labili e impotenti dell’Onu e, soprattutto, i rimpalli di responsabilità e le reciproche accuse delle potenze coinvolte, principalmente Siria, Russia, Usa e Turchia. I turchi accusano i russi, il governo siriano accusa gli americani, che a loro volta puntano il dito sulla Siria e su Assad.

Probabilmente, sentendo l’Osservatorio siriano sui diritti umani, la responsabilità è verosimilmente dei russi, ma ciò che davvero colpisce, in tutta questa vicenda, oltre alla questione dell’identificazione del colpevole, è constatare lo scarsissimo valore che le potenze occidentali attribuiscono alla vita del popolo siriano. L’Europa tace, rimane inerme, timida, perché c’è un gioco di alleanze da miscelare prudentemente con la vergogna pubblica, con l’indifferenza imbarazzante e le bugie ormai difficili da nascondere. Mentre il popolo siriano rimane intrappolato nel labirinto di fuoco dentro al quale piovono bombe, missili e proiettili che hanno mani diverse e obiettivi diversi, e l’Is continua ad avanzare con il proprio carico di morte e orrore, l’unica soluzione che le potenze della “civile” Europa hanno saputo partorire è stata quella di pagare miliardi di euro alla Turchia per fermare il flusso dei disperati che fuggono da quell’inferno.

Non hanno trovato di meglio, non hanno mostrato alcuna intenzione di intervenire con la forza delle diplomazie per almeno provare a risolvere la questione siriana e fermare il conflitto. Un conflitto che, a forza di errori e di inquinamenti esterni, si è ingarbugliato sempre di più fino a produrre il disastro attuale che spinge milioni di persone a fuggire per salvarsi la vita. Persone che avremmo l’obbligo di far passare e di accogliere e che invece, in questo continente attraversato da egoismi e da funesti rigurgiti xenofobi, lasciamo nelle mani dei trafficanti e poi fuori o in attesa, davanti a frontiere ghiacciate, a ridosso di muri e recinzioni, di postazioni piene di poliziotti armati, pronti a sparare lacrimogeni, a manganellare, a respingere. L’Europa si chiude, come una “cittadella fortezza” che ammette qualcuno solo in cambio di un interesse preciso, solo se ci si può lucrare intorno, senza che vi sia almeno la concessione certa di un qualche diritto.

Stanno vincendo le oscurità che salgono dallo stomaco delle forze più populiste, che dominano soprattutto l’est Europa e che però assumono forza e peso anche nel resto del continente. Non c’è alcuna intenzione di far qualcosa, di salvare un’umanità che viene spezzata ogni giorno. La retorica è il male più grande, più insopportabile che affligge la nostra società occidentale, pronta a mostrarsi affranta di fronte a un evento emotivamente visibile, come un naufragio o il corpo di un bimbo su una riva, ma poi subito decisa a respingere, negare, aggredire coloro che sono ancora vivi e chiedono solo riparo e speranza. Si sceglie di fermare i flussi, pagando un paese canaglia, ambiguo e doppiogiochista, guidato da un presidente che non ha alcun rispetto per i diritti umani. Si sceglie di rimandare all’inferno coloro che sono riusciti a scappare, e a chi riesce ugualmente ad arrivare si riserva un altro inferno, fatto di violenza, umiliazioni, repressione.

Siamo un continente viziato ed egoista, che si crede erroneamente migliore di coloro che accusa di inciviltà o di barbarie. Stiamo diffondendo lo stesso terrore che diciamo di voler combattere e lo possiamo leggere negli occhi e nelle storie di tutti quei migranti che sono bloccati alle frontiere di tutta Europa, in quei bambini che si arrampicano sugli scogli delle coste greche con i volti stremati e impauriti, in quei migranti che vengono tenuti come carcerati nei centri mal funzionanti delle terre di approdo. Sono gli stessi esseri umani che, se avessero obbedito all’“invito” degli Orbàn, dei Salvini, dei Cameron, ossia quello di restare “a casa loro”, sarebbero morti sotto le bombe di cui l’Europa è complice. Sarebbero finiti sotto le macerie degli ospedali, delle case, dei palazzi deflagrati in un istante, dilaniati dalle schegge, bruciati dal fuoco, o sgozzati dalle mani di quei sudditi del califfato che l’occidente ha lasciato arrivare indisturbati fino in Siria.

Ecco, allora, al di là dei colpevoli di questo o quel bombardamento, c’è una responsabilità più grande e ancora più violenta: quella di chi ancora oggi tace, o peggio, propone e attua soluzioni assurde e crudeli, come quella della chiusura e dei respingimenti alle frontiere. E poi c’è il male più grande, il silenzio che lascia passare, come fosse nulla, la morte di cinquanta innocenti per mano di chi manovra missili e bombe che si ha la perfidia di chiamare intelligenti. Nessuno ha espresso dolore, nessuno è sceso in piazza, nessuno ha alzato la voce. Sono diventati morti abituali. Sono la dimostrazione di quanto rancida e disumana sia quella maledetta formula #jesuis che è divenuta il marchio più evidente e “social” dell’egoismo europeo.

Massimiliano Perna –ilmegafono.org