Quando si parla di banche si entra spesso e volentieri in un territorio spinoso, carico di controversie e contraddizioni, anche in fatto di ambiente e sostenibilità. A sette anni di distanza dall’accordo di Parigi, emergono dati contrastanti dal report Banking on Climate Chaos, redatto da Reclaim Finance, Oil Change International, Rainforest Action Network, BankTrack, Indigenous Environmental Network, Sierra Club, Urgewald e sostenuto da oltre 550 organizzazioni da ogni parte del mondo. Il dossier focalizza l’attenzione sui finanziamenti che le banche hanno elargito alle industrie di combustibili fossili, sebbene siano stati stilati accordi per il clima e l’ambiente. In sette anni, appunto, dal 2016, le principali banche internazionali hanno finanziato l’industria fossile con circa 5500 miliardi di dollari.

Le “nostre” Unicredit e Intesa San Paolo figurano tra le prime 45 banche a livello internazionale coinvolte nei finanziamenti, soprattutto per i legami con Eni e Total. Dati in forte contrasto con le decisioni apparentemente prese sui carburanti fossili, in particolare sul carbone, industria che comunque continua a ricevere finanziamenti sia dall’Europa che dall’America. Sono tuttavia le banche cinesi a rimpinguare più di tutte l’industria del carbone. Anche le banche statunitensi fanno la loro parte da protagonista: la JP Morgan è la banca che ha sostenuto di più il settore, con 434 miliardi tra il 2016 e il 2022, anno in cui si è fatta largo anche la Royal Bank of Canada. Le banche americane rappresentano il 28% del totale nello scorso anno, ma sono in rapida ascesa anche banche cinesi, canadesi ed europee. Un record negativo è di Unicredit, la banca italiana che tra il 2021 e il 2022 è risultata al 15esimo posto tra gli istituti che più hanno finanziato l’industria di petrolio e gas.

Uno degli aspetti che più colpisce all’interno del dossier, è il finanziamento di attività estrattive in Amazzonia e nell’Artico. Nel primo caso è la banca spagnola Santander ad aggiudicarsi il primato, ma ancora una volta risultano molto attive le italiane Unicredit e Intesa San Paolo. Nel secondo caso si punta al finanziamento di attività offshore e non: sulla terraferma figura anche Intesa San Paolo. Nel 2022 le banche cinesi hanno fatto la parte del leone nell’Artico, mentre proprio di recente, nel marzo 2023, l’America di Biden ha approvato il progetto petrolifero Willow, che prevede trivellazioni di gas e petrolio nella National Petroleum Reserve. I dati emersi dal dossier stridono con gli impegni che le banche hanno preso anche pubblicamente, e con tanto di proclami, alla Cop26 di Glasgow: 49 dei 60 istituti presi in esami hanno lanciato obiettivi di emissioni nette zero, 43 banche fanno parte della Net-Zero Banking Alliance, lanciata proprio alla conferenza di Glasgow. Tra queste 43 banche vi sono anche le già citate Unicredit e Intesa San Paolo che, soltanto nel 2022, hanno finanziato le prime 100 aziende che si espandono di più nel settore dei combustibili fossili.

Questi accordi disattesi, come le relative aspettative, comportano una serie di conseguenze anche sul piano dei diritti umani, costantemente violati: nei Paesi soggetti a trivellazioni ed estrazioni, le popolazioni locali sono continuamente vessate dai danni ambientali, senza magari dare il proprio consenso alla realizzazione di progetti altamente rischiosi, come accaduto nella British Columbia, Canada: il progetto Coastal GasLink, finanziato, tra gli altri, dalla Bank of Canada, non ha mai incontrato l’appoggio delle popolazioni indigene. Il progetto prevede la pratica del fracking, ossia l’iniezione di sostanze chimiche nel terreno ad alta pressione, le cui conseguenze sono altamente dannose e veicolo di forti violazioni dei diritti umani.

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