Ci sono partite che sembrano non finire e lasciano la sgradevole impressione che anche se durassero all’infinito il risultato non cambierebbe mai. Nessuna invenzione, nessuna fantasia e nessuna passione. Eppure, c’è stato un tempo in cui la passione muoveva tutto e la partita si giocava fino all’ultimo minuto, fino all’ultima goccia di sudore. Il campionato si perdeva comunque, ma tante partite si sono vinte e ognuna di quelle vittorie ha lasciato un segno, ha regalato orgoglio e appartenenza. Poi, lentamente, ma un giorno alla volta, quel filo di Arianna si è sfilacciato e logorato fino a staccarsi del tutto da quella matassa, magari aggrovigliata e logorata da tante partite combattute contro avversari più forti e più potenti, ma tenuta insieme dalla passione e da un’idea comune, da un sogno. Quel filo di Arianna, che per tutta la sua storia aveva speso energia e cuore per capire e guidare il conflitto sociale in nome di un bene comune da raggiungere, ha lasciato il posto ad un cammino diverso: la mediazione, come strada per ottenere un consenso elettorale attraverso una politica sempre più lontana dalla propria storia e dalle proprie radici.

Dall’altra parte del campo, però, c’era e c’è una squadra che invece cammina sulla sua strada abituale, quella di sempre. Pensare e scegliere di correre sulla strada dell’avversario snaturando la propria è sempre una mossa sbagliata, perdente e moralmente inaccettabile. Il 25 settembre 2022, poco più di un mese fa, le elezioni politiche hanno riportato in parlamento e al governo del Paese la destra fascista e razzista che da anni aspettava questo momento e che, in questi anni, ha scavato nella mente e nella pancia degli italiani come un tarlo operoso e cinico. Sapeva dove voleva arrivare e sapeva come arrivarci. Il Partito Democratico, invece, nella sua rincorsa alla legittimazione attraverso una strada che non era la sua, ha smarrito consapevolmente la propria identità storica, emarginando e allontanando ogni forza, cultura e movimento politico che emergeva alla sua sinistra.

A questa emarginazione si sono aggiunte tutte le scelte peggiori che un partito di governo potesse compiere durante le sue stagioni – e non sono state poche – in cui è stato effettivamente al governo. A partire dalle forzature contro le conquiste del mondo del lavoro, una su tutte il “Jobs Act” alle decisioni di politica internazionale come gli accordi con la Libia, fino alla legge elettorale con cui il Paese ha dovuto votare il 25 settembre, scritta e sostenuta dal Partito Democratico. A ciò si aggiungano l’incapacità di contrastare la prepotente e crescente autonomia delle regioni più ricche, la debolezza nel combattere le disuguaglianze sociali, l’aver accettato di sedere insieme alla destra in nome di un “governo di unità nazionale”. Tanto materiale su cui riflettere, fare autocritica e provare a ricostruire quel patrimonio che quel filo di Arianna teneva unito. Esiste questa volontà di autocritica e ricostruzione? Un tempo, dopo una sconfitta elettorale così disastrosa, un partito degno avrebbe convocato un congresso in tempi rapidi, oggi questo non avviene e i tempi per la convocazione di quel congresso si allungano fino alla prossima primavera.

Ci sono partite che sembrano non finire mai e, fra pochi mesi, ci saranno le elezioni regionali. In Lombardia la partita è particolare e si gioca su un terreno che da troppo tempo è diventato terreno di conquista per la destra italiana. In una regione che ha dato il peggio di sé durante la prima fase della pandemia (i morti di Bergamo sono ancora oggi un’immagine che grida rabbia e sconcerto e di cui la Giunta e il suo presidente si sono sempre vergognosamente autoassolti), la mano destra della politica italiana gioca tutte le carte del mazzo. Quelle carte che nel corso degli anni sono passate di mano in mano, dai faccendieri, che con quelle mani hanno cancellato il bene pubblico consegnandolo quasi totalmente ai privati, alla classe politica più rozza e razzista che ha fatto della Lombardia una delle roccaforti della Lega di Matteo Salvini. In questo panorama oggi emergono due nomi, in particolare, che hanno avuto responsabilità enormi sul disastro della Lombardia: Attilio Fontana, attuale presidente della Regione, e Letizia Moratti.

Attilio Fontana è ancora il candidato di punta della destra, nonostante gli scandali e le gravissime responsabilità di cui si è reso protagonista durante la gestione della pandemia. Sul suo nome convergono tutti i partiti della destra, da quella che si autocompiace definendosi moderata a quella fascista e xenofoba. Letizia Moratti, che delle peggiori stagioni politiche della Lombardia e della città di Milano ha condiviso e approvato ogni nefandezza, si smarca e gioca la carta della sua sopravvivenza politica: uscire dal gorgo di quella destra di cui è stata protagonista per candidarsi con quel “terzo polo” che oggi fa tendenza in tanti salotti milanesi e lombardi. È quello stesso “terzo polo” che il Partito Democratico ha corteggiato fino all’ultimo minuto in occasione delle elezioni politiche del 25 settembre scorso, quando il corteggiamento è stato troncato dai leader stessi del terzo polo: Matteo Renzi e Carlo Calenda.

Ecco allora che la Lombardia e le elezioni regionali potevano e dovevano essere un’occasione per giocare un secondo tempo diverso, mettendo in campo coraggio e passione politica. Parole lontane, perse nel tempo. Ma coraggio e passione non si ritrovano in due mesi se manca l’idea, e la volontà, di un progetto capace di riannodare quel filo di Arianna che il Partito Democratico ha logorato e cancellato dalla sua storia. A pochi mesi da queste elezioni il PD, e quell’area che si identifica e riconosce nel centrosinistra, non è ancora in grado di presentare un nome e un programma che siano credibili e in grado di dare il senso di un cambiamento di rotta, restituendo dignità alla politica. Si attende e si prende tempo, si prendono distanze senza molta convinzione, si butta qualche nome sul tavolo e si ipotizzano primarie di coalizione.

Certo che il nome di Letizia Moratti è improponibile e non condivisibile, lo sanno benissimo i cittadini lombardi e milanesi, è la sua storia a parlare per lei: come sindaco di Milano, come ministro del governo Berlusconi, come presidente della RAI e di UBI Banca, come assessore al Welfare e vicepresidente della Regione Lombardia. Insomma, discorso chiuso e inutile parlarne. Invece c’è chi insiste, come Andrea Marcucci, ex capogruppo dem al Senato: “Il Pd non butti via la possibilità di vincere in Lombardia. Prenda in considerazione la candidatura di Letizia Moratti, gli elettori capirebbero. E nella decisione finale dovrebbero essere determinanti i sindaci di Milano, Bergamo e Brescia: Sala, Gori e Del Bono”.

Il tempo passa, e quando il tempo passa passivamente lascia sempre un segno. Quella ricerca del campo largo è diventato il mantra del Partito Democratico, incapace di comprendere che il momento impone scelte precise e che il tempo perso ad inseguire e compiacere il campo “moderato” ha contribuito colpevolmente a generare la palude in cui affonda il Paese. Non può esistere nessun campo largo se le regole del gioco sono scritte da chi gestisce potere e poteri. Ci sono partite che sembrano non finire mai e c’è un Partito che deve decidere se uscire con la forza delle idee dalla palude in cui ha scelto di immergersi. Forse non ce la farà mai, o forse può ancora provarci. Per farlo dovrà ripulire se stesso dal fango della palude, fare quel bagno di umiltà che non è nelle sue corde e riaprire quel cassetto che custodiva una storia importante, per molti versi nobile, ma che non è la sua, non gli appartiene. Quella storia è stata buttata nel cestino insieme a quel gomitolo di coraggio e di passione che era tenuto insieme da quel filo che è stato tagliato e ritenuto inutile, in nome del “campo largo” e del “voto utile”, per compiacere i “moderati” e dimenticando gli ultimi della fila.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org