“La cinematografia è l’arma più forte”, recitava la frase contenuta in una enorme scenografia raffigurante Benito Mussolini dietro una macchina da presa, realizzata nel 1937 in occasione della cerimonia di inaugurazione dei lavori per la costruzione della nuova sede dell’Istituto Luce. Sono passati quasi novant’anni da quella esibizione grottesca di propaganda di regime, eppure siamo ancora costretti a fare i conti con il fascismo. O meglio con qualcosa di simile che oggi rischia di essere persino più pericoloso dei simboli, dei saluti romani e degli imbecilli che marciano o fingono di commemorare morti che nemmeno conoscono. In questi giorni, infatti, il dibattito sui legami ideologici tra il governo Meloni e la nauseabonda storia della destra fascista si è acceso e si è allargato, nutrito dai fatti di Acca Larenzia, dal silenzio di Meloni e dalle dichiarazioni di La Russa e degli altri imbarazzanti personaggi di FdI o delle associazioni e fondazioni che si richiamano ancora al fascismo e ai suoi tetri esponenti del passato.

Abbiamo osservato l’imbarazzante incapacità di condannare il regime, Mussolini, ma anche la storia eversiva e di violenza degli anni Sessanta e Settanta, e di dichiararsi antifascisti, cosa che peraltro dovrebbe essere semplice, visto che si vive e si banchetta dentro una democrazia e dentro istituzioni democratiche che sono il risultato della lotta di Resistenza che ha sconfitto quel regime. Tuttavia, il dibattito si è fermato a un livello superficiale, nel quale ci si limita a chiedere al governo delle parole o delle prese di distanza. Per carità, il linguaggio è un elemento essenziale, le parole sono importanti, per dirla con Moretti, ma il dibattito non può fermarsi a questo, altrimenti diventa sterile, perfino inutile.

Più che discutere del legame (peraltro scontato) di Meloni e dei suoi sodali con l’ideologia fascista, il vero pericolo sul quale bisognerebbe concentrarsi è il tentativo attuale di fascistizzazione della società. Perché, mentre si parla (giustamente) di apologia e di saluti romani, il governo allunga le mani sulla democrazia e lo fa riproponendo (laddove possibile, considerato il mutato contesto storico) i dogmi e le strategie che furono del regime. “Voglio liberare la cultura italiana da un intollerante sistema di potere, in cui non potevi lavorare se non ti dichiaravi di una certa parte politica”, strillava la premier Meloni a maggio dello scorso anno durante un comizio elettorale, a Catania. Qualcuno ha pensato a uno slogan, in realtà era un pezzo del programma di governo. Perché alla destra italiana, profondamente illiberale, ancor di più se ci si sposta verso l’area sovranista, ciò che preme non è il bene del Paese, non è una politica economica che guardi al sociale, né il progresso della nazione, ma solo difendere interessi di parte e vendicarsi degli avversari.

La democrazia, si sa, non è una veste comoda per i fascisti, non lo è mai stata, in nessun momento della storia della Repubblica italiana. Ecco allora perché il governo sta impiegando tutti i suoi sforzi in alcuni ambiti che sono fortemente connessi all’identità e alle strategie del partito di maggioranza. In questo senso si spiegano il bavaglio all’informazione, l’occupazione della RAI e di fondazioni prestigiose come la Biennale di Venezia, i tagli al cinema e il tentativo di mettere le mani sulla cosiddetta “settima arte”, ritenuta uno strumento fondamentale per la propaganda del governo. L’ossessione della destra verso il cinema e il convincimento che il mondo del cinema e della cultura siano politicamente dipendenti dalla sinistra (quale sinistra poi?), porta Giorgia Meloni e i suoi burattini di governo a partorire scelte che sono gravissime e sulle quali servirebbero un dibattito acceso e un’opposizione forte.

Prima l’intervento sulle fiction RAI e l’epurazione di coloro che in RAI erano considerati un fastidio, per far posto ai propri fedelissimi (da Insegno a Barbareschi). Poi, il pesante taglio di 100 milioni ai fondi per il cinema, chiesto incredibilmente dal ministro Sangiuliano al suo collega Giorgetti. Quindi, la modifica della composizione e delle procedure di nomina degli organi direttivi del Centro sperimentale di cinematografia (Csc) di Roma, uno degli istituti più importanti per chi vuole formarsi e lavorare nel cinema e nel settore audiovisivo. Un intervento, quest’ultimo, mirato a far cadere in anticipo il cda e il comitato scientifico in carica per sostituire i membri con altri scelti dal governo, che con le nuove procedure aumenta il proprio potere di nomina. Ciliegina sulla torta, l’ultima idea del ministro Sangiuliano di entrare a far parte (lui o chi per lui, si parla anche della sottosegretaria Borgonzoni) del consiglio direttivo dei David di Donatello, gli oscar del cinema italiano.

Un altro luogo importante che il governo vuole occupare, convinto che, come disse lo stesso Sangiuliano durante la cerimonia di presentazione dei candidati ai David del 2023, “il cinema è il biglietto da visita dell’Italia”. E se l’immagine offerta dal cinema è di un’Italia che promuove valori difformi da quelli che il governo approva, allora è chiaro che bisogna intervenite. Perché la libertà fa male al potere, soprattutto quando è reazionario e nostalgico. Fa talmente male che non bisogna mollare nessuno spazio, bisogna prendere posizione su tutto, far sentire la propria voce con chiunque, impiegare il tempo per presentare interrogazioni e montare casi persino quando due comici danno vita a una scenetta semplice, senza alcuna pretesa o connotazione ideologica (il caso Paolantoni-Izzo). E non è ancora arrivato Sanremo, che sotto la direzione di Amadeus è stato spesso luogo di discussione e di urla da parte della destra allergica ai diritti.

Insomma, è il controllo l’obiettivo finale del governo Meloni e dei suoi alleati. Un controllo funzionale a nascondere le magagne, i silenzi, gli interessi, le incapacità, le ambiguità di chi aziona le leve del potere. Per raggiungere questo obiettivo, la cultura, da sempre spazio di libertà, è la prima cosa da incatenare. Il cinema, poi, è il frutto più succulento da strappare dalle mani di chi dissente. D’altra parte, anche lui, il mai rinnegato capostipite, diceva che “la cinematografia è l’arma più forte”. E a lui, su questo e su altri temi (inclusi il ruolo della donna e il razzismo), i fascisti di oggi obbediscono ancora. Con il braccio alzato o meno.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org