“Il lavoro non può espandersi secondo i crescenti bisogni dell’uomo; non può utilizzare tutta la sua potenza creatrice per soddisfare le incessanti esigenze di vita e di progresso dell’umanità. Da questo sistema di predominio del capitale, da questo sistema di sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sorgono le crisi, la disoccupazione, la miseria, di cui soffrono le popolazioni. Da questo sistema d’ingiustizia e di sopraffazione, sorgono le cupidigie e le brame di rapina dei grandi monopoli su altri Paesi, su altri mercati, su altre fonti di materie prime. Di qui, sorgono le guerre imperialistiche, coi loro inseparabili e terribili cortei di massacri, di distruzioni, di lutto, di carestia. Il 1° maggio, pertanto, i lavoratori del mondo intero, celebrano la potenza invincibile del lavoro, rivendicano il loro diritto alla conquista di migliori condizioni di vita” (Giuseppe Di Vittorio)

Se esiste una storia che diventa un momento unificante, capace di superare i confini e le barriere geografiche e sociali che gli Stati hanno costruito intorno alla vita degli uomini e perciò diventare internazionale, questa è la storia del Primo Maggio. È una storia che parte da lontano: dall’Australia del 1855, dove per la prima volta si parlava di “otto ore di lavoro, otto di svago, otto per dormire”, fino agli Stati Uniti d’America, quando migliaia di lavoratori decisero di fermarsi. Era il 1° Maggio 1886. La città di Chicago divenne il simbolo di quella giornata, con un corteo imponente e pacifico che aprì la strada agli scioperi che nei giorni successivi coinvolsero i lavoratori di tutte le principali città americane. La società americana non poteva tollerare tutto questo e la reazione contro i lavoratori arrivò puntuale e violenta.

Le sedi sindacali distrutte e l’arresto dei gruppi dirigenti diventarono una regola e portarono a scontri violenti: a Milwaukee la polizia sparò contro gli scioperanti e sulla strada rimasero i corpi di nove operai, mentre a Chicago otto militanti anarchici furono condannati a morte. Quei fatti e quei morti diventarono il simbolo della lotta per le “otto ore”. Solo tre anni più tardi, a Parigi, nel 1889, il primo congresso della Seconda Internazionale sceglieva la data del Primo Maggio come giornata simbolo dei lavoratori e per rivendicare il diritto alle otto ore.

In Italia, la giornata del Primo Maggio venne istituita nel 1890, ma il 20 aprile del 1923 il regime fascista soppresse la ricorrenza. Lo stesso regime che organizzava le spedizioni punitive contro le organizzazioni operaie, che assaltava e devastava le sedi sindacali e le Camere del Lavoro, usava allora tutta la sua retorica per cancellare la festa del Primo Maggio. Eppure, anche negli anni della dittatura fascista, il Primo Maggio non smarrì il suo originario valore internazionalista. Nel 1932 L’Unità uscirà con una prima pagina che incitava i lavoratori ad “un Primo Maggio di riscossa proletaria!”. Solo dopo la caduta del fascismo i lavoratori italiani si riapproprieranno a pieno titolo di quella data, ma, il 1° maggio del 1947, a Portella della Ginestra, si compie la prima strage dove l’intreccio mafia-politica-Stato si presenta all’Italia repubblicana.

Il ministro dell’interno di allora, il democristiano Mario Scelba, si affrettò a fare ricadere ogni responsabilità della strage su Salvatore Giuliano e sulla sua banda, ignorando di fatto sia l’intero contesto politico in cui maturò la strage sia le collusioni fra lo stesso Giuliano e gli esponenti politici locali e nazionali. Erano gli anni in cui la Sicilia cercava il suo riscatto da quella sottomissione ad un potere feudale che durava da troppo tempo: si stava creando quel fermento sociale e politico per merito, soprattutto, del grande movimento contadino organizzato, che lottava per l’occupazione e la concessione dei terreni incolti. La forza di quel movimento contadino e gli ultimi risultati elettorali per l’Assemblea regionale mettevano paura alle forze reazionarie. Ripresero le intimidazioni contro sindacalisti ed esponenti dei partiti della sinistra. In seguito, con una lettera all’Unità, fu lo stesso Salvatore Giuliano a ribadire le finalità politiche della strage e a denunciare i rapporti e i contatti con il mondo della politica e con lo stesso Mario Scelba. Salvatore Giuliano venne ritrovato morto il 5 luglio 1950.

Sono passati settantacinque anni da quel lontano 1° maggio a Portella della Ginestra. L’articolo 1 della Costituzione ricorda a tutti noi che “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, ma la storia di questi anni ci racconta un Paese diverso. Ci racconta una storia di diritti cancellati e, in molti casi, negati in assoluto; ci racconta di chi prova con ogni mezzo a dividere i lavoratori stessi. Ci racconta di una classe dirigente in cui è difficile individuare il “padrone”, per le troppe maschere che indossa: a volte ha un nome e un cognome, molte altre è un fondo di investimento nascosto dentro mille scatole cinesi. Ci racconta di diritti conquistati un metro alla volta dopo anni di lotta, sacrifici e scioperi lunghissimi, ma che oggi vengono cancellati. Ci racconta di fabbriche dimesse e delocalizzate, di mille forme di contratti che disperdono l’essenza della persona in mille rivoli, di lavoratori mai riconosciuti dallo Stato e in balia del caporalato e delle cosche.

La storia di questo Paese ci racconta dei morti sul lavoro, ed è un conteggio che ogni anno aumenta le sue cifre, che si aggiungono ai troppi che hanno pagato il conto all’amianto, al fuoco che li ha bruciati in una notte di dicembre nella città di Torino. Nessuno ha pagato per quei morti, e quando è successo il prezzo è stato minimo, quasi nullo. Ecco, allora, che le parole di Giuseppe Di Vittorio oggi hanno lo stesso valore che avevano quando sono state pronunciate nel 1953: quel “sistema d’ingiustizia e di sopraffazione da cui sorgono le guerre imperialistiche, coi loro inseparabili e terribili cortei di massacri, di distruzioni, di lutto, di carestia”, è ancora un sistema che, così com’è, rimane nemico dell’uomo. Rispetto a quell’800 quando i lavoratori di Chicago incrociavano le braccia per la conquista delle otto ore, molte cose sono cambiate: è cambiato il padrone e il padrone di oggi è più subdolo e più difficile da combattere.

È cambiato anche tutto il contesto sociale intorno al mondo del lavoro: la fila degli ultimi si è ingrossata, e chi non ha nulla è disposto ad accettare qualunque cosa pur di avere appena qualcosa in più di quel nulla. E, su questa disperazione, la classe dominante sa di poter contare: per dividere, per creare differenze, per disperdere l’idea che il lavoro possa davvero diventare il muro portante di una società diversa e migliore. Eppure, i lavoratori di questo nuovo millennio devono sentire l’orgoglio di quell’eredità e non chiudere mai le braccia, oggi come un tempo: il Primo Maggio è ancora un momento unificante per la classe operaia, per tutti i lavoratori dimenticati e rottamati, sconfitti, abbandonati al proprio destino anche da chi ha cavalcato prima e abbandonato poi il mondo del lavoro, costruendo compromessi sui castelli di carta e cedendo progressivamente diritti e conquiste. Ma quella Classe non sarà mai davvero sconfitta fino a quando sarà capace di essere viva e unita, come ci hanno insegnato i lavoratori della Gkn di Firenze. Buon Primo Maggio allora, a chi ancora sente che quel senso di appartenenza, sociale e ideale, ha ancora motivo di esistere.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org