Era il secolo scorso, quando il mondo viveva nel folle equilibrio di quella “guerra fredda” che metteva i brividi. In quel mondo fortemente diviso tra blocchi contrapposti, l’allora presidente della Repubblica italiana, Sandro Pertini, nel suo discorso di insediamento davanti al Parlamento, si presentava con queste parole: “L’Italia, a mio avviso, deve essere nel mondo portatrice di pace: si svuotino gli arsenali di guerra, sorgente di morte, si colmino i granai, sorgente di vita per milioni di creature umane che lottano contro la fame. Il nostro popolo generoso si è sempre sentito fratello a tutti i popoli della terra. Questa la strada, la strada della pace che noi dobbiamo seguire.”. Era il 9 luglio 1978. Molto tempo è passato da quel giorno e il mondo continua a vivere sul folle equilibrio di mille guerre che non sono più “fredde” ma dichiarate a voce alta: non si è svuotato nessun arsenale, nessun granaio è stato riempito.

Quelle parole restano un messaggio nella bottiglia, che naviga nel mare della stupidità umana. Le parole sagge, purtroppo, si dimenticano in fretta e lasciano il posto ai bilanci e ai fatturati: sono loro che determinano i destini dell’umanità, decidono le priorità e le politiche dei Paesi che compongono il puzzle dell’intero pianeta. I muri resistono, insieme a tutte le contrapposizioni che la comunità internazionale costruisce ogni giorno: esistono muri visibili a tutti e altri che vengono occultati e che passano sotto silenzio con la complicità di un’informazione sempre più asservita a poteri e governi. L’Italia scommette sulle guerre. Lo fa convintamente, ignorando, oltre alla coscienza, anche l’articolo 11 della sua Costituzione, che così recita: “L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

Dalle tante guerre in corso l’Italia è il Paese che ha tratto i maggiori profitti, ed è quello che più di tutti ha aumentato il volume delle sue esportazioni di armi: cresce dell’86% nell’export di armamenti pesanti e si colloca al sesto posto a livello mondiale. Oltre il 70% di questo export è destinato ai paesi mediorientali: Qatar, Egitto e Kuwait sono fra i clienti preferenziali. L’Italia è anche il secondo esportatore in Turchia (rappresentiamo il 23% delle armi acquistate da Ankara) e il terzo in IsraeleA dirlo sono i risultati, resi pubblici, del rapporto SIPRI, l’Istituto internazionale di ricerca sulla pace di Stoccolma, che ha analizzato i dati relativi al quinquennio 2019-2023.

Questi dati si inseriscono in un quadro globale – dove le guerre in corso non si fermano – che prospetta ulteriori ricavi per tutta l’industria delle armi, anche in considerazione del fatto che la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, ha invitato i paesi membri dell’Unione ad aumentare gli investimenti nella produzione delle armi. Le aziende europee delle armi, quindi anche quelle italiane, hanno beneficiato in questi anni dei grandi finanziamenti dell’Unione. La lobby delle armi ha usato anche il dramma dei migranti per raggiungere lo scopo: attraverso l’agenzia Frontex ha ottenuto la militarizzazione, e la presunta messa in sicurezza, dei confini. Ecco allora che i necessari sistemi di monitoraggio delle frontiere e dei confini hanno visto aziende come Leonardo agire in primo piano sulla questione.

Ma le lobby agiscono anche all’interno del parlamento italiano e così, il 16 gennaio, il governo presenta un disegno di legge per la modifica della Legge 185/90 sull’export militare. La Commissione Affari Esteri e Difesa del Senato approva tre emendamenti che influenzano pesantemente la trasparenza della “Relazione annuale al Parlamento sulle esportazioni dall’Italia di materiali militari”, sottraendo di fatto al parlamento il controllo, e all’opinione pubblica la conoscenza, delle informazioni dettagliate sulle operazioni di export delle aziende di armi. Il Gruppo Banca Etica è intervenuto sulla questione affermando che: “la Legge 185/90, ottenuta grazie alla pressione della società civile, anticipando meccanismi e criteri di norme internazionali, è uno strumento importante che garantisce trasparenza – in particolare attraverso la Relazione annuale che il governo deve inviare ogni anno al Parlamento con tutti i dati sull’esportazione di armi – e si basa sul principio che la vendita di armamenti non possa essere considerata un semplice business, ma debba essere legata a politica estera, rispetto dei diritti umani e ruolo di Pace dell’Italia, sancito dall’articolo 11 della Costituzione”.

Il disegno di legge è stato approvato dal Senato il 21 febbraio del 2024. Ma quali sono le “eccellenze” italiane di questo business? Il posto d’onore spetta a Leonardo e Fincantieri, che insieme coprono circa l’80% dell’intero fatturato dell’industria bellica italiana. Accanto ad una produzione che solo in minima parte è rivolta all’uso civile, aumenta sempre di più l’incidenza della produzione militare. Vicino ai due colossi convivono tante altre aziende che si dividono un mercato che, dai fucili mitragliatori, arriva ai livelli più sofisticati della guerra moderna: Avio Aero, Thales Alenia SpaceItalia, Iveco Defence Vehicles, Rheinmetal, Oto Melara. L’Italia firmava il “Trattato di Messa al Bando delle Mine” il 3 dicembre 1997, ma intanto la Valsella Meccanotecnica aveva seminato le proprie mine antiuomo in tutto il mondo. È un fatturato da capogiro, in un settore che occupa decine di migliaia di lavoratori. Se il mercato mondiale delle armi è dominato da USA, Cina e Russia, è significativo il salto in avanti della sola Leonardo, la prima azienda europea in questa triste classifica.

Oltre ai dati statistici e ai fatturati delle fabbriche di armi c’è anche un aspetto etico che non è affatto secondario: come si pone il nostro Paese di fronte alle guerre che oggi stanno portando il mondo verso una catastrofe annunciata? Quali bugie vengono raccontate ai cittadini di fronte a quello che avviene in Ucraina e in Palestina? Quali alibi vengono portati per giustificare la vendita di armi a paesi come Egitto e Qatar? Come si spiega il coinvolgimento con paesi come la Libia a cui forniamo le motovedette che la Guardia Costiera libica usa nel Mediterraneo?

Per l’Ucraina il Parlamento ha autorizzato – anche per il 2024 – la fornitura di mezzi, materiali ed equipaggiamenti militari. Il voto favorevole della Camera ha fatto seguito a quello del Senato che aveva già approvato il 18 gennaio. Cosa viene fornito non è dato sapere ufficialmente, in quanto secretato dallo Stato maggiore della difesa, autorizzato anche ad adottare “le procedure più rapide per assicurare la tempestiva consegna dei mezzi, materiali ed equipaggiamenti”. Per quanto riguarda Israele, nell’ultimo decennio le aziende italiane hanno venduto armamenti per 120 milioni di euro, di cui 9,3 milioni solo nel 2022. Il picco massimo è stato raggiunto nel 2019, quando le vendite hanno sfiorato i 29 milioni di euro. Sulla situazione attuale, i dati dell’Istat smentiscono il governo Meloni, che aveva dichiarato pubblicamente di aver “sospeso e bloccato” l’esportazione di armi verso Israele dal 7 ottobre 2023. 

I dati sono rintracciabili sulla rete, sono statistica. Poi c’è un altro aspetto su cui dovremmo interrogarci: il mondo del lavoro. Come può l’etica del lavoro conciliarsi con la guerra? Questo è il punto. Davanti alla distruzione, davanti alla morte e a chi riesce a scappare dalle guerre, c’è chi dice che bisogna “aiutarli a casa loro”. Già, casa loro. Forse però è quella stessa casa che una bomba intelligente ha appena cancellato, guidata da un sistema di puntamento infallibile. Certo, noi non siamo gli unici a fabbricare e vendere armi. Però ci siamo anche noi, e in prima fila. Le fabbriche storiche di questo Paese chiudono o hanno giù chiuso, quelle che progettano morte no, non hanno chiuso. Anzi, sono considerate le eccellenze di questo Paese. Poi, per chi ce l’ha, resta la coscienza.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org