Morire per aver lottato. Morire per aver aperto il proprio cuore e aver messo generosamente la propria dignità e il proprio senso di giustizia al servizio degli altri. Morire, ammazzati, in un Paese che volta lo sguardo altrove per non guardarsi dentro, nel profondo. Adnan Siddique è stato ucciso. Punito per aver combattuto per i diritti dei lavoratori, per quei braccianti dei quali in pochi, al netto di parole e proclami, si occupano per davvero. Adnan era pakistano, aveva 32 anni e una famiglia numerosa da aiutare. Era diventato il figlio sul quale puntare per provare a migliorare la vita di tutti. Adnan era arrivato in Italia con quel compito, con quella generosità che, a quanto pare, non rivolgeva solo alla sua famiglia, ma anche agli altri. A chi subiva il ricatto degli sfruttatori, di quei caporali che ti tengono in pugno, caporali in gran parte stranieri ma al soldo di aziende italiane, complici silenziose, ipocrite burattinaie di un sistema schiavista che perdura da troppi anni.

Aziende per le quali il caporale è una risorsa, la soluzione per risparmiare e per tenere a bada eventuali tentativi di denuncia o di protesta. Adnan non ci stava, non accettava che la fatica dei lavoratori, i soldi guadagnati duramente, fondamentali per vivere e per far vivere le proprie famiglie, dovessero essere ceduti in parte a chi sfrutta e si arricchisce senza lavorare, sulle spalle altrui. Così Adnan, sindacalista senza sindacato, non è riuscito a voltare lo sguardo altrove, a non ascoltare, a scrollare le spalle e dormire tranquillo. Non ha scelto di rinviare, né ha pensato alle conseguenze, ma ha agito. Ha risposto a quel fuoco interiore che anima chi davvero non può accettare nemmeno per un istante che si compia un’ingiustizia. Così ha spinto gli sfruttati a ribellarsi, lo ha fatto mettendoci il corpo, accompagnando fisicamente chi veniva sfruttato a sporgere denuncia.

Adnan Siddique ha camminato a testa alta. E questo non andava bene a chi le teste vuole vederle chinate, obbedienti, silenziose, impaurite dalla minaccia di non lavorare più o dalla violenza delle ritorsioni. Ha camminato a testa alta Adnan e ne ha pagato il prezzo. Ucciso a coltellate, nella sua casa di Caltanissetta. Cinque coltellate per finire un uomo coraggioso che conosceva il profumo della dignità. Cinque coltellate che hanno squarciato la sua pelle e il silenzio di un Paese che ha dimenticato di lottare davvero. Un Paese in gran parte rinchiuso dentro una retorica insopportabile, dentro una abitudine sempre più triste, quella di trincerarsi dietro le lunghe riflessioni, per poi svegliarsi solo dopo, quando non si può più fare nulla.

Adnan ha pagato il prezzo degli uomini liberi, quello di trovarsi da soli, di morire da soli. Una vecchia e tragica consuetudine in Italia, dove ci si accorge sempre tardi di quello che avviene dentro il proprio corpo, sotto la pelle della nazione. In Italia si muore da soli, reclamando diritti. Una solitudine vissuta in mezzo all’assordante vocio di promesse, annunci, dibattiti sterili, polemiche vuote, indolenze istituzionali, schermaglie mediatiche e provvedimenti inutili. Si muore dentro quel rumore irritante, mentre si agisce in silenzio, lontani dalle sigle che difendono se stesse e goffamente provano a celare i propri fallimenti, testimoniati spietatamente da queste situazioni incancrenite da anni. Si muore lontani da chi allarga le braccia dicendo che bisogna aspettare o aprire riflessioni, che i soldi non ci sono, che le leggi non aiutano. Si muore lontani da chi non ti accompagna mentre tu vai a denunciare o aiuti qualcuno a farlo.

Si muore lontani da chi giustifica la propria inerzia affermando che le cose non cambieranno mai, dimenticando che non cambiano proprio per colpa di quella stessa inerzia e di chi cerca alibi e non soluzioni. Si muore lontani da chi non comprende che un giorno, un solo giorno in più di sfruttamento, è un chiodo in più piantato sulla pelle e sulle ossa degli sfruttati. Adnan lo sapeva e non ha voluto aspettare. Non ha cercato alibi alla sua coscienza di uomo. Ha risposto a un’esigenza di giustizia. Ha fatto quello che dovrebbero fare, ovunque, tutti coloro i quali avrebbero la forza di agire senza diventare bersaglio. Ha fatto quello che fece Placido Rizzotto. Di Adnan ce ne sono altri, in altre zone, in altri luoghi di questo Paese. Quasi sempre sono soli. Non perché vogliono esserlo, ma perché siamo noi a lasciarli soli. Perché stare accanto a loro, significherebbe guardare quello che non siamo. Significherebbe dover metterci il corpo, il tempo, i rischi. Significherebbe non dormire la notte, non vivere sereni, doversi guardare attorno senza alcuna protezione.

Significherebbe andare contro l’ipocrisia dei propri riferimenti politici, di chi si fa bastare il minimo per sentirsi a posto con la coscienza, proponendo soluzioni che non sono soluzioni ma elemosina o concessioni al ribasso. Significherebbe rimettere in discussione i propri modelli, le proprie abitudini, fare spazio alle priorità dell’altro, senza ritorni di alcun tipo, liberamente. Significherebbe portarsi dentro per tutto il tempo il dolore e le umiliazioni di quegli ultimi ai quali spesso non concediamo altro che la nostra solidarietà distante o sporadica. Perché ci si sta abituando sempre più a questo. Solidarizzare, mostrare indignazione, scegliere i simboli che più ci uniscono e ci fanno sentire in pace. Ma ci dimentichiamo che tutto questo non basta. Non serve nel concreto. Non serve a combattere la distanza che mettiamo tra noi e chi vive peggio di noi, tra il rumore per vicende lontane sulle quali siamo impotenti e il silenzio su ciò che ci riguarda da vicino e rispetto a cui potremmo fare tanto. Un silenzio che fa da specchio e da misura al nostro reale impegno, al suo concreto valore.

Non è questione di buonafede o di malafede, è un fatto. Nelle campagne, a parte qualche attivista o qualche sindacalista illuminato, a parte qualche iniziativa utile, alla fine di qualsiasi ragionamento, rimane il silenzio degli sfruttati. E rimane la solitudine loro e di chi prova davvero a difenderli, concretamente e senza rinvii o compromessi al ribasso.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org