Giornalisti scomodi, bersagli da eliminare. Parlano chiaro gli ultimi dati rilevati dal rapporto pubblicato pochi giorni fa da Reporters Sans Frontières – ong indipendente che ha la sede principale a Parigi e che dal 1985 monitora gli attacchi alla libertà di stampa e denuncia le situazioni di rischio in cui operano i giornalisti nel mondo. Nel 2018 sono stati uccisi 80 giornalisti – l’8% in più rispetto allo scorso anno -, 348 incarcerati e 60 sono attualmente in ostaggio.

Nel caso di quelli assassinati, più della metà degli omicidi è avvenuto in modo mirato in quanto le vittime erano diventate un’intollerabile minaccia per gli interessi di alcuni uomini di potere o della criminalità organizzata. Il Paese più “letale” per gli operatori dell’informazione è l’Afghanistan, luogo in cui, nel corso del 2018, si sono registrate 15 vittime, seguito dalla Siria e dallo Yemen. Ma nella classifica dei primi 5 Paesi più pericolosi al mondo per l’incolumità dei giornalisti entrano per la prima volta gli Stati Uniti (che occupano il 45° posto su 180 Paesi nella classifica stilata dalla stessa RSF sulla libertà di stampa) con sei vittime registrate dall’inizio dell’anno.

Doveroso specificare in questo caso che quattro delle vittime hanno perso la vita a giugno in una sparatoria avvenuta nella redazione di un giornale, il “Capital Gazette”, nel Maryland, mentre le altre due sono morte raccontando i danni provocati da una tempesta tropicale in Carolina del Nord. Il rapporto fa anche notare come, in questa classifica, tre dei Paesi rappresentati non sono in guerra: oltre agli Stati Uniti ci sono anche l’India e il Messico.

Dei 348 giornalisti incarcerati invece, oltre la metà sono concentrati nelle prigioni di Cina, Egitto, Turchia, Arabia Saudita e Iran. La Cina se ne aggiudica il primato con 60 giornalisti reclusi di cui 46 non professionisti. Li Datong, ex
direttore di “Freezing Point”, pubblicazione settimanale del popolare giornale “China Youth Daily”, ha dichiarato che in Cina non è mai esistita la libertà di stampa e oggi anche gli ultimi diritti dei cittadini sono stati spazzati via dal regime, in quanto molti siti e account sui social media vengono chiusi in massa.

Secondo lo stesso rapporto, inoltre, i 46 giornalisti non professionisti sono stati imprigionati proprio per aver cercato di colmare quel gap di informazioni creato soprattutto dal crescente controllo da parte del Partito comunista sui media tradizionali. Molti finiscono in carcere – spesso in condizioni disumane, si legge nel rapporto – semplicemente perché rei di qualche post di troppo sui social media.

Non è casuale allora la scelta del Time di dedicare quest’anno per la prima volta il titolo “Person of the Year” a una serie di giornalisti – molti dei quali scomparsi – per il loro impegno nella “guerra per la verità”. A partire dal più noto, Jamal Khashoggi, la cui tremenda vicenda ha occupato per settimane le pagine dei giornali di tutto il mondo.

Reporters Sans Frontières in questo ultimo rapporto pubblicato assume toni allarmanti e lancia un appello attraverso il quale richiede la nomina urgente di un rappresentante speciale delle Nazioni Unite per la tutela dei giornalisti. Un mondo dell’informazione globale complicato, quello di oggi, un groviglio di verità ben nascoste in attesa di essere scoperte e raccontate. Ma i tempi, come spesso succede, sono poco rassicuranti.

Alina Nastasa -ilmegafono.org