“Caro Presidente, scrivo a Lei, e attraverso Lei mi rivolgo anche a quei cittadini che avranno la possibilità di ascoltare queste mie parole, questo mio grido, che non è di disperazione, ma carico di speranza umana e civile per questo nostro Paese. Fino a due mesi e mezzo fa la mia vita era sì segnata da difficoltà non indifferenti, ma almeno per qualche ora del giorno potevo, con l’ausilio del mio computer, scrivere, leggere, fare delle ricerche, incontrare gli amici su internet. Ora sono come sprofondato in un baratro da dove non trovo uscita. Ogni giorno vado peggio, sempre più debole e stanco. Dopo circa un’ora mi accompagnano a letto. Guardo la tv, aspettando che arrivi l’ora della compressa del Tavor per addormentarmi e non sentire più nulla e nella speranza di non svegliarmi la mattina. Io amo la vita, Presidente. Vita è la donna che ti ama, il vento tra i capelli, il sole sul viso, la passeggiata notturna con un amico. Vita è anche la donna che ti lascia, una giornata di pioggia, l’amico che ti delude. Io non sono né un malinconico né un maniaco depresso,  morire mi fa orrore, purtroppo ciò che mi è rimasto non è più vita, è solo un testardo e insensato accanimento nel mantenere attive delle funzioni biologiche. Il mio corpo non è più mio ”. (Piergiorgio Welby)

Sono solo alcuni passi della lettera che Piergiorgio Welby, nel settembre 2006, scrisse all’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Giornalista, attivista politico, militante nel Partito Radicale, ma anche poeta e uomo libero dai condizionamenti di una società ipocrita e chiusa su se stessa, scriveva al Presidente per chiedere il riconoscimento di un diritto e di una libertà di scelta, capace di riconoscere e rispettare la forza del pensiero laico. Il 20 dicembre dello stesso anno Piergiorgio Welby moriva, aveva 61 anni. La sua ultima battaglia era durata ottantotto giorni, e aveva innescato polemiche e discussioni infinite che ancora oggi dividono e non trovano la strada. Il Presidente Giorgio Napolitano rispose a quella lettera, ma questo Paese era ed è ancora troppo lontano dal comprendere e rispettare la forza di quel pensiero laico che, nella lettera di Piergiorgio Welby, emergeva in tutta la sua bellezza e la sua importanza (clicca qui).

Nelle settimane successive alla lettera di Welby al Presidente, in occasione della “giornata per la vita”, la Chiesa cattolica riaffermò con estrema decisione e freddezza la propria contrarietà e lo fece per mano del “Consiglio Episcopale Permanente”, con una durezza che non lasciava margini: “Chi ama la vita si interroga sul suo significato e quindi anche sul senso della morte e di come affrontarla…Ma non cade nel diabolico inganno di pensare di poter disporre della vita fino a chiedere che si possa legittimarne l’interruzione con l’eutanasia, magari mascherandola con un velo di umana pietà”.

Dalla morte di Piergiorgio Welby ad oggi tanti altri nomi sono stati scritti accanto al suo, storie e destini che questo Paese ha giudicato con ferocia e freddo calcolo politico, ignorando il bisogno di una legge che rispondesse a quel pensiero laico e umano della vita e dello Stato. Ognuno di questi nomi accompagna la solitudine cui questo Stato ha condannato chi lottava accanto a quelle vite e per quelle vite. Un nome che questo Paese non potrà dimenticare è quello di Eluana Englaro. La sua storia è stata lo specchio di una società arroccata e rozza dove i tanti crociati hanno avuto il diritto di negare diritti, avvoltoi che hanno banchettato sulle tragedie degli altri. Come dimenticare gli insulti che il padre di Eluana ha subito per anni? Quegli insulti arrivavano da ogni parte: semplici cittadini, una parte non piccola della stampa, uomini politici e di governo come il senatore Gaetano Quagliariello che in Parlamento gridava che Beppino Englaro era un assassino. È lo stesso Gaetano Quagliariello che nel 2013 verrà nominato ministro per le Riforme costituzionali nel governo Letta.

Il tempo passa: i diritti civili si conquistano con la fatica e le lotte politiche, un passo alla volta, e qualcosa si muove nel Paese: manifestazioni e mobilitazioni, raccolte di firme. Piccoli passi, ma ostinati e fermi. Non è mai facile abbattere una barriera, soprattutto quando quella barriera è costruita sulle ipocrisie e sul potere di un pensiero secolare incapace di cambiare prospettive. Si arriva al 2017 e il Testamento biologico diventa una legge dello Stato – Legge n. 219/2017, approvata il 14 dicembre 2017, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 16 gennaio 2018 e in vigore dal 31 gennaio 2018: “Nel rispetto dei princìpi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge”.

Sarà grazie alla disobbedienza civile di Marco Cappato, nel caso del suicidio assistito di Dj Fabo, che nel 2019 la Corte costituzionale sancisce che “non è punibile l’aiuto al suicidio se la persona che ne fa richiesta ha determinate condizioni verificate dal Ssn, ovvero ha malattia irreversibile fonte di sofferenza fisica o psichica, è dipendente da trattamenti di sostegno vitale e ha piena capacità di autodeterminarsi “. Attualmente in Italia l’eutanasia costituisce reato, punibile in base agli articoli 579 e 580 del Codice penale. Di fatto rimangono l’eutanasia passiva – tramite interruzione di supporto vitale – che talvolta è autorizzata da sentenze giudiziarie, o quella forma di suicidio assistito considerato “non punibile”. L’Associazione Luca Coscioni resta il faro di una battaglia civile lunga e difficile, un lavoro instancabile fatto di mobilitazioni, iniziative istituzionali e disobbedienza civile. È stato istituito un intergruppo parlamentare per le scelte di fine vita, formato da parlamentari di ogni schieramento politico: l’obiettivo è di arrivare ad una legge che renda legale l’eutanasia.

C’è davvero un tempo per ogni cosa: un tempo per vivere, per sorridere, per andarsene quando la vita non è più vita ma un lucchetto che chiude una gabbia senza luce e senza futuro. Una gabbia dove la vita se ne è andata sbattendo la porta, lasciando solo un cuore che batte in un corpo che non può più vivere, dove le emozioni, il brivido e i sentimenti, non hanno più diritto di esistere. Poi c’è un tempo dove occorre lottare con coraggio e forza, anche contro uno Stato ipocrita e bigotto che vuole avere l’ultima parola sulla vita e si arroga un diritto che appartiene solo alle persone.

Da Piergiorgio Welby, che amava la poesia e la pittura, a Eluana Englaro, semplicemente Eluana, a Fabiano Antoniani che tutti abbiamo imparato a conoscere come Fabo. Ai tanti come loro, a Fabio Ridolfi, ultimo ma solo in ordine di tempo e che ha chiesto come ultimo saluto l’incontro con i calciatori della Roma, Zaniolo e Pellegrini. A “Mario”, vale a dire Federico Carboni, 44 anni, completamente paralizzato da 12 anni a causa di un incidente stradale. Lui è la prima persona che ha ottenuto di poter effettuare il suicidio assistito in Italia. Se n’è andato pochi giorni fa e per poter esercitare il suo diritto ha dovuto far ricorso a una raccolta fondi per l’acquisto del farmaco e delle apparecchiature per l’infusione. Questo perché, come denuncia l’Associazione Luca Coscioni, in assenza di una legge lo Stato italiano non si fa carico di nessun costo. Lo stesso Stato che troppe volte si ricorda dei suoi cittadini solo per negare l’ultimo diritto: l’autodeterminazione e la libera e umana scelta di chiudere il libro.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org