Esistono limiti che non andrebbero mai oltrepassati, soprattutto quando si ricopre un ruolo istituzionale e, ancor più, quando si indossa una toga. La giustizia è una cosa seria e non è ammissibile che qualcuno ne calpesti i fondamenti per ragioni che esulano certamente dal diritto. Quanto sta avvenendo alla Procura di Locri, sulla vicenda di Mimmo Lucano, è perlomeno imbarazzante. Il procuratore di Locri, Luigi D’Alessio, e il pm Michele Permunian continuano a muovere accuse pesantissime all’ex sindaco di Riace, Domenico Mimmo Lucano. Lo fanno nonostante, sin dall’inizio, come emergeva dal contenuto dell’ordinanza, erano molte le lacune e numerosi gli strafalcioni dell’indagine. Lo fanno nonostante l’uomo dal quale è partita la denuncia che ha fatto scattare l’indagine, un commerciante di Riace, sia stato ritenuto inattendibile dal Tribunale del Riesame di Reggio Calabria.

Proseguono nel loro teorema accusatorio, nonostante già più volte, sempre il Riesame e perfino la Cassazione hanno sottolineato la vacuità delle imputazioni, l’assenza di elementi, di condotte penalmente rilevanti, di riscontri ad accuse che sono basate per lo più su congetture. Persino il divieto di dimora a Riace è stato annullato. Insomma, per la magistratura, quella che agisce tenendo fede al diritto e ai principi sanciti dal nostro ordinamento e dalla Costituzione, Mimmo Lucano non è colpevole, non ha commesso reati, non ha intascato soldi da spendere privatamente con la propria compagna, non ha lucrato sull’immigrazione o sull’accoglienza, né usato questa sua esperienza per costruire consenso politico e ottenere candidature prestigiose.

Mimmo Lucano, in poche parole, sia per il Tribunale di Reggio Calabria che, soprattutto, per la Corte di Cassazione, non è colpevole. Eppure, a Locri, abbiamo una procura che continua, non arretra, non rinuncia alla sua volontà famelica di inchiodare Lucano, alla sua brama di infilare i propri artigli sulla carne dell’ex sindaco di Riace e di tutto ciò che rappresenta, sia in concreto come uomo sia a livello simbolico come volto di un modello virtuoso che il mondo intero ci ha invidiato, dedicandogli attenzione e studio. Il pm Permunian ha chiesto quasi 8 anni di reclusione per Lucano e 4 anni e 4 mesi per la sua compagna Lemlem Tesfahun. Una richiesta difficile da commentare rimanendo sul terreno della razionalità, del diritto, del buonsenso. E anche del pudore.

Perché l’imbarazzo nel leggere i brani della requisitoria del pm è identico a quello già provato, in più occasioni, nel leggere o ascoltare sui giornali o in tv le parole del procuratore D’Alessio, pronto a sentenziare anche fuori dal processo, a esprimere una condanna mediatica preventiva, nonostante la fragilità evidente delle accuse, nonostante gli errori e i vuoti delle indagini a supporto di un teorema che è totalmente politico. Perché altre spiegazioni appaiono meno plausibili. La voglia di protagonismo, la ricerca di visibilità mediatica troverebbero un limite invalicabile nelle conclusioni e nelle parole espresse dal Tribunale della Libertà e dalla Cassazione, suggerirebbero prudenza, quantomeno suggerirebbero di non perseverare in un atteggiamento incomprensibile. Lo stesso atteggiamento che ha portato il pm a spingere sulle velleità politiche di Lucano, utilizzando persino articoli di giornale su fatti non inerenti al processo e non costituenti reato e ignorando il fatto che l’ex sindaco ha rifiutato in più occasioni candidature a livello regionale, nazionale ed europeo (che comunque sarebbero state legittime). Cosa che ha invece deciso di fare adesso, giustamente, come ha annunciato pochi giorni fa (leggi qui).

Non potendo conoscere direttamente la motivazione che anima questa azione della procura di Locri e che assume sfumature più persecutorie che logiche, l’unica ipotesi che resta in piedi è quella che sin dall’inizio aleggia su questa vicenda. La magistratura ha, consapevolmente o meno non sta a noi dirlo, fornito il braccio alla politica che ha scientificamente colpito Riace e l’uomo che ne incarnava il modello. Minniti prima, Salvini poi, hanno intenzionalmente smontato il modello Riace, perché stava diventando troppo popolare e forniva all’opinione pubblica, non solo nazionale, una risposta chiara, possibile, positiva al fenomeno dell’immigrazione e alle opportunità di accogliere con un reciproco beneficio per migranti e ospitanti. Un modello che storpiava impietosamente la propaganda che continua, ancora oggi, a raccontarci che l’Italia non può permettersi di accogliere, che sono troppi, che sono pronti a invaderci.

Mimmo Lucano, con la sua semplicità fatta di cultura e umanità, di idee chiare e sentimenti puliti, ha ridicolizzato il potere. Ha svelato la nudità oscena del potere e delle sue sovrastrutture utilizzate per creare divisioni e polarizzazioni utili alla costruzione di un consenso drogato e lontanissimo dall’interesse collettivo. Mimmo Lucano ha sempre detto di aver fiducia nella giustizia e, in effetti, chi ha giudicato i teoremi dell’accusa fino ad ora li ha respinti e ritenuti frutto di congetture. Eppure l’accusa continua, ciecamente, tra ricostruzioni errate e interpretazioni soggettive, spostando ogni volta il focus, ora su illeciti già smentiti e non comprovati, ora su strategie politiche che Lucano avrebbe costruito attraverso l’accoglienza.

Le vittime sono i migranti, sostiene l’accusa, e questa affermazione può essere condivisibile a patto che si aggiunga che sono vittime di chi ha smantellato il modello Riace, almeno nella sua versione istituzionalizzata, perché poi il modello continua a vivere, a esistere. E chi lo ha smantellato? Non Lucano, ma la politica nazionale e questo tipo di magistratura, estranea alla sua funzione reale, morbosamente fedele al suo vuoto e inconsistente teorema. Non è il primo caso in Italia, purtroppo, e non sarà l’ultimo, almeno fino a quando non si riuscirà a discutere, con serietà e senza schemi ideologici o politici, di magistratura, riforme e responsabilità dei giudici. Perché il tema è quello e non riguarda solo personaggi celebri o amati, che possono difendersi e far emergere la verità, ma anche tante persone che finiscono per essere distrutte e ingoiate dalla tracotanza di chi scambia il diritto e la giustizia per un tavolo da gioco nel quale lanciare i dadi del destino altrui.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org