L’Afghanistan tornato in mano ai talebani ha immediatamente fatto emergere la questione femminile. Il ritorno al potere di chi ha sempre privato le donne dei propri diritti e della propria libertà ha sin da subito provocato orrori. Violenze, abusi, donne costrette a nascondersi, a scappare via per sottrarsi alla rappresaglia sui loro corpi e sulle loro vite. Donne che scendono in piazza a protestare, a rivendicare i propri diritti, finiscono sotto le fruste e la violenza del nuovo regime. Niente cricket, niente sport, separazione dagli uomini a scuola e nelle università, niente politica: le donne non possono fare le ministre, loro “devono partorire, dare i figli al popolo e educarli”, ha affermato il portavoce talebano Sayed Zekrullah Hashim. Segregazione, in poche parole. Quella che altre donne, probabilmente costrette dalla propaganda, hanno invece chiesto manifestando, con il corpo e il volto quasi completamente coperti (visibili solo gli occhi), in risposta alle proteste dei giorni precedenti.

L’orrore in Afghanistan non è mai finito. Ma aveva dato un po’ di tregua da questo punto di vista. Oggi invece la ferocia talebana è tornata ed è nuovamente pronta a essere legalizzata, contemplata da leggi e istituzioni. Una ferita, la più profonda tra quelle lasciate dal fallimento degli esportatori di democrazia, andati via senza preoccuparsi di quello che sarebbe accaduto dopo. Soprattutto alle donne, che come sempre pagano il prezzo più alto. Dal ritorno al potere dei talebani, sono stati tanti i documenti, i filmati, le testimonianze della violenza che si è già scaricata sulle donne. In Europa, in Italia, le reazioni sono state molteplici. Un’indignazione profonda e assolutamente motivata, dettata dall’angoscia per il destino di chi è costretta a vivere nuovamente sotto la guida di un gruppo di combattenti figli della peggiore sottocultura patriarcale, affastellata di sconclusionati dogmi religiosi e di tradizioni incancrenite e tossiche.

A qualcuno però sfugge un particolare, che andrebbe considerato nel disegnare, motivare e plasmare la propria indignazione. L’Afghanistan, a pensarci bene, non è così lontano da noi. Se nella terra dei talebani l’orrore maschilista è istituzionalizzato e considerato legale, in Italia (e non solo) c’è un orrore altrettanto sanguinoso che non è legale né istituzionalizzato, ma viene in qualche maniera tollerato e accettato. Persino giustificato. Non solo dalla gente comune, ma anche dagli osservatori, da parte della politica e della stampa. Le cifre sulla violenza nei confronti delle donne nel nostro Paese sono spaventose. Anche il 2021 ci sta portando un insopportabile carico di sangue, dolore, rabbia. Sono già quasi 80 le donne uccise in Italia dall’inizio dell’anno; di queste, circa 60 sono state uccise in ambito familiare. Ben 50 quelle assassinate dal partner o dall’ex. Nelle ultime 24 ore (rispetto a quando stiamo scrivendo), sono state ammazzate due donne, una in Lombardia e l’altra in Calabria. Una dall’ex coniuge e una dal coniuge.

E chissà che dalla stesura di questo articolo alla sua pubblicazione le cifre non aumentino ancora. È una violenza feroce, inaudita, che ha insanguinato le cronache di questo Paese. Sono nomi e volti che giungono sulla stampa o nei tg o nelle trasmissioni di approfondimento (spesso nocivo). Rita, Giuseppina, Sonia, Angelica, Vanessa, Silvia, Shegushe, Roberta, Chiara, Saman e tante altre. Un elenco che fa male, perché dietro ogni nome c’è una tragedia che si poteva evitare. C’è una storia di donne, figlie, madri, sorelle finite dentro un orrore che il nostro Paese lascia che si compia, senza dedicare nulla di più che uno scuotimento di testa, una lacrima, un post rabbioso. O al limite qualche commento sdegnato nei confronti dei tanti titoli e articoli indecenti che, più o meno consapevolmente, “comprendono” il carnefice e colpevolizzano la vittima.

La verità è che ci occupiamo della violenza sulle donne solo quando il sangue scorre. Spesso lo facciamo distrattamente, considerando numeri quelle storie, molte delle quali rimangono intrappolate in qualche dichiarazione di familiari o amici, in qualche riga di giornale, per poche ore, prima di essere archiviate. Fino alla prossima, fino a quella che, per via di un dettaglio o di una particolare dinamica o per una squallida forma di utilità politica, riesce ad avere più attenzione, a far sorgere un dibattito. Sterile anch’esso. Perché il problema non lo risolviamo con le parole, anche se le parole potrebbero certamente aiutarci, a patto di trovarci disposti a metterci in discussione, a comprendere che questo orrore ci riguarda. Non è solo afgano, non è solo talebano, è anche occidentale, europeo, italiano. E in Italia questo orrore non riguarda solo le donne o i maschi che le torturano, ma anche e soprattutto noi uomini. Tutti noi, nessuno escluso.

Perché quelle donne che non conoscevamo fino al tragico finale delle loro esistenze, sono persone comuni. Potrebbero essere le nostre amiche o parenti, le vicine, qualcuno che conosciamo. Può essere qualsiasi donna che si trova dentro un meccanismo che la società maschilista e sessista ha costruito per bene. Un meccanismo dentro il quale ciascuno di noi ha messo qualcosa, una vite, un bullone, una battuta idiota, un linguaggio sbagliato, un gesto arrogante verso una collega o una dipendente. Siamo noi che dobbiamo disarmare la mano dei maschi frustrati e violenti. Siamo noi che dobbiamo cambiare noi stessi, il nostro modo di parlare, scherzare, esprimere opinioni e giudizi. Tutti insieme, poi, da cittadinanza attiva, dobbiamo lottare per costringere le istituzioni a intervenire su tre fronti: culturale (il linguaggio e l’educazione sin dalle scuole), politico (la responsabilità e il buon esempio che finora sono mancati), operativo (la prevenzione e la tutela di chi denuncia, finora troppo carente).

A questo aggiungerei una stampa matura che smetta di regalarci titoli, foto, commenti degni di una tv di regime a Kabul. E una magistratura che si assuma la responsabilità di certe decisioni e interpretazioni. Perché se non iniziamo a cambiare da subito, questo sangue non smetterà di scorrere. Così come non finirà nemmeno la violenza domestica che spesso non sfocia in sangue e morte, ma si trasforma in lividi o in malvagità psicologica, in sopraffazione e in privazione della libertà. In sopravvivenza. Per comprendere tutto ciò però bisogna smettere di indignarsi a comando e di far finta di essere inconsapevoli di una ferocia che va in scena ogni giorno in tutto il territorio italiano. Solo così potremo dirci diversi dai talebani, quelli di Kabul e quelli che vivono dentro le nostre città, accanto a noi, nelle case silenziose dove il dolore è messo a tacere o dove, quando prova a uscire, rimane troppo spesso inascoltato. O viene spazzato via con una lama o un colpo di pistola.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org