Quella tra Argentina e Francia, per gli appassionati di sport e non solo di calcio, è stata sicuramente la finale più bella nella storia dei Mondiali: sofferta, sentita, mai scontata, spettacolare. A uscirne vincitrice è stata l’Argentina di Scaloni e di Leo Messi, quest’ultimo consegnato definitivamente alla storia, il ‘diez’ dei nostri giorni che finalmente si è scrollato di dosso l’ombra di D10s, Diego Armando Maradona. O forse no. L’ombra che invece aleggia sulla finale di Doha, senza considerare tutte le premesse negative con le quali il campionato si è svolto in Qatar, si è posata sulle spalle di Leo Messi direttamente dalle mani dell’emiro Tamim bin Hamad Al Thani, con buona pace di Gianni Infantino, numero uno della Fifa. Pochi istanti prima che ritirasse la Coppa, infatti, è stata effettuata una vera e propria vestizione di Leo Messi: l’emiro ha posato sulle sue spalle il Bisht, un abito tradizionale tipico del Qatar e dei paesi del Golfo Persico, una mantella nera trasparente, maschile, che simboleggia di fatto il potere e l’opulenza degli emiri arabi.

Un gesto che ha fatto discutere, che ha lasciato interdetti quanti stessero assistendo alla premiazione, un senso di straniamento e sorpresa dal sapore un po’ amaro. Tamim bin Hamad Al Thani ha di fatto ‘comprato’ il calcio, imponendo il potere arrogante del denaro alla finale dei Mondiali, l’evento che nell’immaginario collettivo riporta tutti a una dimensione quasi fiabesca, dove i grandi del calcio si sfidano in una partita unica, raccontando ogni quattro anno una favola a sé. Quest’anno la dura realtà del denaro ha rubato parte di questi sogni, con la complicità e la compiacenza della Fifa, che ha ormai da tempo dimenticato l’incanto del calcio giocato. Anche se in campo c’è uno dei più forti di sempre, Leo Messi, che, erede o meno di Maradona, ha regalato tantissime magie ai Mondiali in Qatar.

Sponsor, contratti, giochi di palazzo sono ormai triste consuetudine delle competizioni calcistiche, e lo dimostrano le costanti ingerenze delle ricchezze degli emiri sul calcio europeo. Lo dimostra l’accettazione passivo-aggressiva di Gianni Infantino alle regole imposte dal Qatar: nessun simbolo vagamente politico, censura, sportwashing per quanto accaduto prima del fischio d’inizio, un bilancio di oltre seimila morti durante i lavori di preparazione, congedati con una serie di divieti a chi volesse esprimere il proprio dissenso con una semplice fascia arcobaleno. Un simbolo troppo schierato, a detta dei numeri uno della Fifa, salvo poi far indossare a Messi quello che potremmo definire il velo pietoso che si stende purtroppo sulla competizione sportiva.

Prendersela con la Pulce non serve a nulla. Leo Messi, sette volte Pallone d’Oro (premio consegnato dalla Fifa), volto di sponsor e adv, calciatore del Paris Saint Germain, la squadra di Nasser Al-Khelaifi, imprenditore qatariota, è figlio di questo calcio moderno, malgrado il talento espresso in campo, sul quale nessun emiro può sindacare e che nessun magnate può comprare. Quando ha alzato al cielo la Coppa del Mondo con il Bisht sulle spalle, in molti abbiamo pensato “Maradona non lo avrebbe mai fatto, avrebbe anche mandato a quel paese l’emiro”. I confronti tra epoche e campioni diversi non sono mai produttivi, i parametri cambiano nel corso degli anni, così come la natura stessa dei calciatori.

Figli di due epoche diverse e di due modi diversi di concepire il calcio, due personalità diverse, due atteggiamenti diversi. Il calcio degli ultimi anni, il calcio di Leo Messi inteso come azienda e fatturato, sono molto lontani dal messaggio politico e dai vessilli rivoluzionari, e forse caricare di questa responsabilità chi deve esprimersi in campo può essere eccessivo. Resta però il rammarico per un sogno a metà, con un piede nel mito e un piede nella realtà, quella dei soldi e degli sceicchi che hanno comprato il calcio.

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