L’otto è considerato il numero dell’equilibrio cosmico. Nei tarocchi rappresenta la Giustizia, nella simbologia cristiana rappresenta la trasfigurazione e il Nuovo Testamento, nelle antiche religioni, l’otto (posto in orizzontale) è il simbolo dell’infinito. Otto sono anche i colpi di arma da fuoco che, il 10 dicembre 1982, massacrano il corpo di Francesco Panzera, insegnante di matematica e vice preside del liceo scientifico “Zaleuco” di Locri. Otto spari, uno dietro l’altro. Per ben otto volte, il giovane Francesco viene attraversato dai proiettili. Inutile la corsa in ospedale. Sono gli anni Ottanta del secolo scorso, le mafie cominciano ad occuparsi meno della gestione dei latifondi e dei furti di bestiame. Si adeguano ai tempi. Hanno compreso che il racket e il traffico internazionale di droga finalizzata allo spaccio creano imperi economici stratosferici e ci si arricchisce velocemente. La droga, in particolare, diventa la principale attività economica di cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra, sacra corona, banda della Magliana.

Il dilagare del fenomeno, nel giro di pochissimo tempo (tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta), fa sì che tanto gli abitanti delle grandi città metropolitane, quanto dei piccoli paesi, da Nord a Sud, vengano presto a conoscenza del problema costituito dalla droga e da chi ne fa uso. L’immagine del tossico da strada, dipendente primariamente da eroina assunta per via endovenosa, si diffonde tra la popolazione. Eroina e cocaina sono le due droghe “pesanti”: la prima è quella dei poveri, la seconda è quella dei ricchi. La prima si inietta, la seconda si sniffa. Si sa che esistono anche l’hashish e la marijuana che si fumano negli spinelli, strascico del periodo sessantottino, e si sente parlare dell’LSD usato maggiormente dagli artisti; solo i più informati sentono parlare del crack, una sorta di cocaina fumata soprattutto in America, ma in Italia ancora praticamente sconosciuta. Ma è soprattutto di eroina e di cocaina che si parla, perché di queste si comincia a sapere che il loro uso porta a dipendenza certa e, prima o poi, alla morte.

Le mafie diventano, nel giro di pochissimo tempo, imprese di morte. Il prof. Panzera, con i suoi occhi acuti e penetranti, i capelli ondulati e il baffo tipico della moda di quegli anni (come si vede in una sua celebre foto in bianco e nero), non è il classico insegnante che impartisce le sue lezioni e torna a casa soddisfatto. Ciccio Panzera, come lo chiamano gli amici, è anche un educatore, non solo un docente. Conosce i suoi allievi, con alcuni di essi instaura un rapporto di fiducia, diventa il loro confessore, il loro punto di riferimento extrafamiliare, in alcuni casi il loro salvatore. Panzera sa benissimo che dietro le morti per droga c’è la ‘ndrangheta, conosce i boss del posto e gli spacciatori che vendono la morte al dettaglio. Sa, conosce e non rimane zitto.

Parla ai giovani, li mette in guardia su quanto, in quegli anni, sta avvenendo nella Locride, denuncia facendo nomi e cognomi, è intollerante nei confronti degli atteggiamenti omertosi di molti conterranei, odia la droga e i “venditori di morte”, lancia appelli, aiuta i suoi allievi alla conoscenza del fenomeno e li allontana dal circuito, difende i tossicodipendenti e cerca di salvarli. Probabilmente ha paura, ma non se ne lascia sopraffare o né si lascia fermare. Francesco Panzera è diverso, viaggia in “direzione ostinata e contraria”, è un uomo giusto che non si allinea alla massa, che non fa finta di non vedere, che si “sporca le mani”, poiché fare l’educatore, ancor più che fare l’insegnante, significa sporcarsi le mani, star dentro le cose, vivere insieme alle persone che decidi di aiutare per portarle a un cambiamento. Francesco viene ucciso e zittito, mentre rientra da un gita in montagna con gli amici di sempre.

Quel professore va fermato, ha “rotto la minchia” come, anni dopo, avrebbe fatto don Pino Puglisi a Palermo. Non sono riusciti, però, a fermare del tutto il ricordo di questo giovane uomo, ancora troppo dimenticato, anche nella sua Calabria. Il Comune di Locri gli ha dedicato una strada e il liceo scientifico gli ha intitolato il laboratorio di fisica. Troppo poco. Davvero troppo poco. A distanza di 40 anni dalla sua scomparsa, l’unica vera sconfitta, al di là del fatto che abbiamo tutti la memoria corta, resta non aver ancora dato un volto al suo carnefice e ai suoi mandanti. Una chiazza di sangue, l’ennesima, che sporca il nostro Paese di un atroce delitto di mafia rimasto completamente irrisolto nel tempo. E se l’otto, come gli otto colpi di pistola che gli hanno tolto la vita, per le antiche religioni rappresenta l’infinito, ci si augura che le sue idee, i suoi valori e i principi per cui si è battuto siano immortali, come il suo esempio a non omologarsi e quindi, ad apparire diverso, perché, come scrisse un giurista americano, “quando perdiamo il diritto ad essere diversi, perdiamo il privilegio di essere liberi”.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org