“Credo che la Giustizia non sia un giudizio incontrovertibile ed eterno. Si configura spesso come un equilibrio di molteplici poteri e di molteplici verità ma, avendo dei figli, ho capito che una verità non è davvero sensata se non può essere spiegata ad una bambina di 8 anni”. Parole forti, parole commoventi ed allo stesso tempo inattese quelle proferite, lo scorso 3 febbraio a “Che tempo che fa” da una inedita Fiammeta Borsellino. La figlia del famoso giudice assassinato nell’attentato di via D’Amelio è apparsa visibilmente commossa ed al contempo in preda ad un dignitoso imbarazzo davanti all’affettuoso rispetto mostratole da tutti i presenti in forza del ricordo del sacrifico e del coraggio del padre.

Nonostante siano trascorsi quasi 27 anni da quel terribile 19 luglio 1992, è stata solo la seconda apparizione televisiva della signora Borsellino: la prima fu due anni fa, in occasione della “Serata Falcone Borsellino” andata in onda il 23 maggio 2017 da via D’Amelio. È stata lei stessa a spiegare le ragioni del proprio iniziale silenzio e cosa l’abbia spinta, nel 2017, ad interromperlo. “È stato un silenzio dettato da quella fiducia nello Stato che ha sempre contraddistinto l’attività di mio padre e la nostra famiglia. La fiducia nello Stato è infatti la principale eredità morale che ci ha lasciato mio padre”.

“Ma – ha aggiunto Fiammetta- Stato non soltanto come garante della libertà, della dignità e dei diritti di un essere umano ma anche come garante di un giusto processo di verità che costituisce l’unica vera strada verso la giustizia”. Speranza, rispetto e fiducia sono stati per anni una costante della famiglia Borsellino nell’attendere che fosse fatta giustizia, che quello Stato che il padre aveva fedelmente servito e per il quale si era sacrificato ricambiasse un po’ il favore. Tutti sentimenti che, nell’aprile 2017, con la sentenza del processo Borsellino quater sono stati irrimediabilmente delusi. Quella sentenza ha infatti cristallizzato una grande vergogna per l’intera Italia, definendo tutto quanto sino a quel momento appreso sull’attentato ai danni del giudice Borsellino e della sua scorta come “uno dei più gravi depistaggi della storia giudiziaria italiana”.

Un depistaggio fatto di molteplici inquinamenti probatori ed anomalie giudiziarie. Primo tra tutti il prelievo della borsa di lavoro del giudice, avvenuto con scarsissima attenzione da parte degli addetti ai lavori, in mancanza per esempio di un’opportuna registrazione delle generalità di coloro ai quali veniva affidato il reperto. Scarsa attenzione che ha procurato la sparizione dell’ormai nota “agenda rossa”, un quadernetto da cui il giudice non si separava mai negli ultimi tempi e nel quale era solito appuntare le sue riflessioni lavorative. Fu incaricata una procura inadatta, quella del procuratore capo Giovanni Tinebra, vicino agli ambienti massonici, che, da subito, chiese la collaborazione di Bruno Contrada, del SISDE, collaborazione, è bene sottolinearlo, vietata dalla legge.

Il processo fu inoltre affidato a magistrati alle prime armi che, per loro stessa ammissione, non avevano la necessaria esperienza in criminalità organizzata palermitana. Quantomeno anomalo fu anche l’aver delegato l’intero filone di indagini ad Arnaldo La Barbera (un poliziotto che, a quanto emerge oggi, sembrerebbe collaborasse con il SISDE) ed al gruppo “Falcone-Borsellino”. La loro “attività investigativa” portò all’individuazione dell’artefice dell’attentato in Vincenzo Scarantino, rivelatosi nel tempo un mero caprio espiatorio, “un pupo vestito da mafioso”, per usare le parole di Fiammetta Borsellino. “L’intera vicenda processuale di Scarantino – ha dichiarato la Borsellino – è dominata da ritrattazioni, e nonostante tutto si va avanti”.

Non fu organizzato alcun confronto tra Scarantino e altri falsi pentiti, Candura e Andriotta, che sembravano confermare la sua colpevolezza, né tra lui ed alcuni mafiosi che invece lo disconoscevano. Ad oggi Scarantino, che ha iniziato a collaborare con la giustizia, fornisce agli inquirenti un tragico quadro di come si svolsero i fatti, dichiarando di essere stato costretto a mentire da pm e poliziotti, aggiungendo che addirittura spesso gli sarebbero stati forniti dei verbali ufficiali per ripassare la propria versione in modo da farla convergere con le dichiarazioni di Andriotta e Cardura. Solo nel 2008, quando Gaspare Spatuzza, uomo dei Graviano ed effettivo artefice di tutte le operazioni di realizzazione dell’attentato, ha iniziato a collaborare con la giustizia, si è lentamente sgretolato il colossale castello di bugie.

Anche se da alcune carte risulterebbe che già 10 anni prima, nel corso di alcuni colloqui investigativi tra il procuratore Pietro Grasso e lo stesso Spatuzza, fosse emersa l’estraneità di Scarantino alla strage di via D’Amelio. “25 anni passati compromettendo quasi per sempre la possibilità di arrivare ad una verità”: è così che ha riassunto l’intera, deplorevole, vicenda Fiammetta Borsellino, la quale ha aggiunto di non provare rabbia o rancore ma “tanta tristezza verso chi non riesce a fare quel passo in più che riesca a dare dignità ad una persona”.

Una grande lezione di speranza da una persona che, pur avendo pagato il più alto dei tributi, riconosce a tutti la possibilità di riscattarsi semplicemente facendo la cosa giusta. Così, in maniera quasi inaspettata, raccontando del proprio incontro con i fratelli Graviano, la figlia del giudice è sembrata voler rivolgere loro un appello: “Credo – ha affermato – che possa vivere e morire con dignità anche chi ha fatto del male e riconosce il danno che ha fatto alle famiglie ed alla società e ripara il danno”. “E riparare il danno – ha aggiunto – non vuol dire stare nelle patrie galere ma dare un contributo di onestà”. Una frase che è insieme dolore, insegnamento, speranza, una frase dal forte impatto emotivo, capace di smuovere le coscienze, forse anche le più spregevoli.

Anna Serrapelle- ilmegafono.org