Il plico contenente un proiettile e indirizzato a Claudio Fava rappresenta una minaccia ed un avvertimento in stile mafioso non solo per lui, in quanto presidente dell’antimafia siciliana e da sempre in prima linea nella lotta contro la criminalità organizzata, ma per tutti coloro che osano sfidare le mafie e i loro complici, le connivenze, i poteri forti ed occulti. La notizia dell’intimidazione contro il giornalista e deputato catanese è rimbalzata su tutti i giornali come un mero fatto di cronaca, una nuova minaccia, qualcosa che il ministro dell’Interno non ha ritenuto meritevole nemmeno di un commento di solidarietà, anche se probabilmente Fava non avrebbe cosa farsene della solidarietà di chi ogni giorno tace sull’argomento.

La notizia, dicevamo, è stata semplicemente quella di una minaccia, pervenuta attraverso una lettera contenente un proiettile calibro 7,65; un avvertimento realizzato da anonimi e diretto alla singola persona, a quello che rappresenta e al nome che porta addosso. E invece no, non è soltanto questo. L’intimidazione a Claudio Fava è un attacco a un impegno che non si ferma, non arretra mai e che oggi lo porta ad agire con la stessa determinazione in un organismo di inchiesta fondamentale dentro l’isola ancora oppressa dalla cappa mafiosa e da interessi oscuri.

Quella lettera è anche altro: è un promemoria affinché nessuno si dimentichi che la mafia è ancora potente; è un monito rivolto a tutti quei politici che pensano che due o tre parole dette in tv possano sconfiggere un male così ben radicato e sporco; è, insomma, un modo per dire che chi “comanda” osserva con attenzione tutto quel che accade nel Paese e che, nonostante il silenzio, vigila affinché le cose vadano secondo un certo binario, un certo programma, senza intoppi e senza che qualcuno si metta in mezzo per fermare certi ingranaggi. Quel qualcuno è Claudio Fava, ma è anche tutta quella gente che nell’isola e non solo si batte contro il potere mafioso e le sue molteplici diramazioni.

Fava poi non è solo un simbolo, ma è un testimone di impegno continuo, concreto, efficace. Dal momento del suo insediamento nella Commissione antimafia della Regione Sicilia, infatti, sono stati realizzati alcuni passi in avanti che hanno fatto ben sperare: innanzitutto si è giunti ad un punto di svolta sul caso Montante, ovvero l’inchiesta che vede coinvolto l’ex presidente di Confindustria Sicilia; poi, la stessa commissione presieduta da Fava ha dato il via ad una indagine sul depistaggio nell’inchiesta sulla strage di via D’Amelio, al fine di giungere alla soluzione di uno dei tanti segreti oscuri del nostro Paese. Non solo: appena una settimana fa, la Regione ha approvato il ddl (realizzato dallo stesso Fava) che prevede l’obbligo, per ogni deputato, di dichiarare la propria eventuale appartenenza ad una loggia massonica, nella consapevolezza che il rapporto tra mafia e massoneria è storicamente uno dei punti nevralgici del malaffare siciliano e italiano.

Quello che certamente preoccupa di più i vigliacchi mittenti del proiettile è infatti il tentativo di Fava di voler combattere quella famosa “zona grigia” che tiene ancora in scacco il Paese. Pippo Fava, padre di Claudio, nel 1983, due settimane prima di essere ucciso dalla mafia, affermava che “i mafiosi stanno in Parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione”. I mafiosi stanno ancora negli scantinati bui della democrazia, quelli sui quali Fava e la Commissione antimafia vorrebbero accendere una luce.

Perché l’obiettivo di Claudio Fava è non solo quello di sconfiggere la criminalità operativa (passando anche dal piccolo boss), ma anche e soprattutto la mafia dei colletti bianchi, dell’imprenditoria, dell’economia e della finanza, della politica e di tutto quel che muove una nazione. Insomma, è evidente che l’attivismo della Commissione e la nota tenacia di Claudio Fava abbiano dato fastidio a qualcuno che ha pensato di agire prima che possano essere compiuti altri passi. Passi che, come era chiaro anche a chi lo ha minacciato, Fava ha assicurato di voler continuare a compiere senza alcuna paura, affermando che “il nostro lavoro andrà avanti”.

Perché un avvertimento come questo non può certo pensare di intimorire chi lotta e combatte da una vita intera. Né è pensabile immaginare che chi abbia commesso tale atto avesse realmente voluto spaventare il singolo individuo: no, c’è ben altro, c’è molto di più, come ha ben scritto Sergio Lima sul Fatto (leggi qui). La minaccia è rivolta sì a Fava in quanto figura di spicco dell’antimafia, ma è anche un avvertimento a tutti coloro i quali pensano di opporsi a un potere criminale che oggi, dinnanzi al disinteresse e all’inerzia di chi governa il Paese, opera e cresce senza trovare particolari resistenze. Non è un caso, infatti, che pochi giorni dopo, un altro proiettile è stato recapitato al procuratore capo di Caltanissetta, Amedeo Bertone, titolare di inchieste delicate sul sistema Montante e sulle stragi di Palermo.

Ecco perché queste intimidazioni non riguardano solo una o due singole persone. Queste intimidazioni dobbiamo sentircele addosso tutti. Non dobbiamo delegare, non dobbiamo lasciare solo né Claudio, né Bertone, né chi come loro combattono contro la criminalità ogni giorno, a schiena dritta, con dedizione, professionalità e passione civile. Oggi più che mai bisogna costringere la classe politica di questo Paese, tronfia di proclami e di propaganda, a non volgere più lo sguardo altrove e a interrompere un silenzio imbarazzante, che perdura da molto prima che a Fava qualcuno dimenticasse di esprimere solidarietà e sostegno.

Giovanni Dato -ilmegafono.org