Lo striscione giallo “Verità per Giulio Regeni” resta un bisogno di verità esposto sui balconi delle case, resiste a fatica al sole di un’estate che brucia sulla pelle. È una resistenza difficile, che si mescola e si confonde con la rabbia e l’amarezza verso un Paese sempre più incapace di guardare oltre quel muro costruito con l’arroganza e la volgarità colpevole su cui gli Stati e i governi tessono la loro tela di ragno. Difficile stupirsi ancora, in quella tela soffocano le tracce di umanità che non hanno nessun valore e nessun peso specifico rispetto agli interessi di parte che la politica sporca coltiva in ogni angolo di questo mondo e sotto ogni bandiera. Ecco, allora, che anche la “Verità per Giulio Regeni” viene inghiottita in quella tela, con l’aggiunta di quelle aggravanti che pesano sulla bilancia della storia: è la Corte di Cassazione italiana che ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura di Roma contro la decisione del giudice che, nell’aprile scorso, decideva la sospensione del processo, per l’impossibilità di notificare gli atti agli imputati. Dunque, è la legge stessa che si avvale della facoltà di chiudere la porta alla verità.

Inammissibile: è questa la parola scelta dalla Cassazione per motivare la decisione di respingere il ricorso ma, se le parole hanno un senso anche nel gelido linguaggio giudiziario, questa è la peggiore, perché se è vero che un ricorso può essere giudicato solo ammissibile oppure no, nel caso specifico questa parola suona come un insulto in più alla memoria di Giulio. Perché e come si è giunti a questa decisione? Per il motivo più semplice è più vergognoso, anzi, per due motivi semplici e vergognosi: il primo motivo è che l’Egitto, che fin dal primo giorno non ha mai fornito nessuna collaborazione alle indagini sull’assassinio di Giulio, si è sempre rifiutato di fornire gli indirizzi degli imputati impedendo di fatto la notifica di un processo a loro carico.

È doveroso ricordare che gli imputati sono ufficiali di alto rango dei servizi segreti egiziani accusati del sequestro, delle torture e infine dell’assassinio di Giulio, ingranaggi di un sistema di controllo e repressione molto più grande di loro e che risponde direttamente ad un regime militare. Quel regime, in quanto tale, non può permettersi di non difendere le sue pedine di controllo. Ecco perché quel rifiuto non è allora un fatto inaspettato e improvviso, ma risponde a quella linea difensiva che fin dalla prima udienza del processo – arrivata ben cinque anni dopo la morte di Giulio – era già emersa chiaramente.

Il secondo motivo, se possibile, è ancora più inquietante e inaccettabile: se per un Paese guidato da un regime militare e poliziesco è impossibile ipotizzare una collaborazione per un processo di omicidio che coinvolge i suoi vertici politici e militari, qualcosa di profondamente diverso è lecito aspettarsi da una Repubblica Parlamentare. Giulio era un cittadino italiano, un ricercatore: l’università in Inghilterra e la laurea ad Oxford, il dottorato a Cambridge. Poi il Cairo, l’ultima città, dove racconta e scrive le lotte dei sindacati indipendenti dopo la rivoluzione egiziana del 2011. In quegli scritti usa lo pseudonimo di Antonio Druis, perché sapeva di essere un bersaglio, un osservato speciale dei servizi segreti egiziani, fin dal giorno del suo arrivo. L’ultima città, il Cairo, è lì che la storia di Giulio finisce nella notte del quinto anniversario della rivoluzione egiziana: era il 25 gennaio 2016.

Quanto è stato determinato e incisivo il comportamento dello Stato italiano in questi anni, quali carte sono state messe in gioco per pretendere dall’Egitto quella verità che viene nascosta con così tanta arroganza? Nulla, o quasi. In questi anni ogni richiesta di verità è stata annacquata dai governi che si sono succeduti. Solo un brevissimo e temporaneo richiamo a Roma dell’ambasciatore italiano in Egitto, che è coinciso con una parvenza di collaborazione finita nel nulla in un attimo. Nel giugno 2019 i genitori di Giulio chiedevano al Parlamento tedesco di: “dichiarare l’Egitto Paese non sicuro, e richiamare i nostri ambasciatori, potrebbe essere un segnale forte di pretesa di rispetto dei diritti umani….vi chiediamo di non lasciarci soli nella nostra pretesa di verità. Giulio era un cittadino europeo e merita l’impegno di tutte le nostre istituzioni”. Solo nel dicembre dello stesso anno, però, nasceva la Commissione parlamentare di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni.

Nei primi mesi del 2020 le agenzie di stampa svelavano che l’Egitto chiedeva un prestito importante ad alcune banche italiane, destinato a coprire e finanziare l’acquisto di forniture militari dall’Italia. Qualcosa cominciava a prendere forma: il sospetto che l’Egitto provasse a coinvolgere il governo italiano con accordi economici e militari di alto livello in cambio del silenzio sulla morte di Giulio. Un giorno alla volta le porte sulla verità si sono chiuse e a chiuderle sono stati anche i “presunti” paesi alleati dell’Italia, compresa l’Inghilterra, la cui Università di Cambridge mostrava palesemente di non cercare nessuna verità sulla morte di un suo ricercatore. Ecco, quindi, che il discorso si sposta: non si tratta di modificare una legge, o un insieme di leggi, ma di cambiare la politica che, su quelle leggi, si arrampica per non cambiare nulla.

È l’atteggiamento politico che ha permesso all’Egitto di giocare le sue carte in una partita senza avversari, e questo atteggiamento l’Italia lo conosce molto bene perché è lo stesso equilibrismo spericolato che ha permesso la firma prima e la conferma poi degli accordi con un Paese come la Libia: accordi economici e militari in cambio del controllo sui flussi migratori. Gli equilibri della geopolitica sulla vita delle persone: chi ha memoria ricorda bene la storia di Ilaria Alpi. Anche la storia di Ilaria è una brutta storia di connivenze, depistaggi e controllo del gioco da parte dei servizi segreti. Anche in quel caso il comportamento del governo e della Commissione Parlamentare d’Inchiesta guidata dall’avvocato Taormina fu ambiguo e inspiegabile. C’è una parola che rimbomba sempre forte nelle stanze della politica italiana: trattativa, una parola entrata ormai nell’ordinarietà della politica italiana.

Trattare per ottenere vantaggi di ogni tipo in cambio di qualcosa su cui non insistere o, meglio ancora, da dimenticare. La storia di Giulio è la storia di un omicidio di Stato, e allora cercare e pretendere la verità sulla sua morte è un dovere per tutti e un diritto per Paola e Claudio, i genitori di Giulio. C’è uno striscione giallo che ha fatto il giro d’Italia, esposto sui balconi, all’ingresso di municipi e università, cinema e teatri, piazze e strade. Quello striscione continuerà fare quel giro d’Italia. Lo Stato e i governi, di ieri, oggi e domani, potranno forse continuare a fingere di non vederlo, ma non sarà un’estate calda a farne appassire il colore, perché l’unico significato della parola “inammissibile” vale solo per i silenzi e le colpe di chi ha ucciso Giulio, di chi tollera questi silenzi e si aggrappa ad una legge dello Stato per nascondere la propria vergogna.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org