“E non conteresti i giorni, i mesi o gli anni, ma i millenni, in un posto senza porte”. M’è venuta in mente questa frase mentre Sabrina mi raccontava, e lo so, non è che sia una citazione d’alta cinematografia, dato che quella sulla morte col nome di Joe Black è una pellicola lenta come un conclave, ma c’è un ottimo Hopkins, e il punto, comunque, è un altro: l’idea di un limbo, sentendo le sue parole, mi ha assalito improvvisa e violenta. Dovevamo discutere di prescrizione, della visione sociale prima che politica dei Radicali, ma il discorso, diventato ampio e liquido, è scivolato su un tema tanto affascinante quanto spinoso e difficile da trattare, soprattutto perché, nell’anno del Signore 2020, appare come un paradosso temporale: gli internati.

Il termine è affascinante, vagamente orwelliano, richiama la psicologia e la fantascienza, ma il significato è molto più banale, terreno, carnale: gli internati fanno parte della schiera degli ultimi, e da rari e reietti quali sono rappresentano metà di un centomillesimo della popolazione italiana. Poco più di tre centinaia di persone che hanno scontato la pena decisa dalla giustizia ma che non possono tornare nel mondo. Parlavamo, con Sabrina Renna, dello stato delle carceri italiane, della terribile condizione di Agrigento con due docce per cinquantasei detenuti, o della polizia penitenziaria sotto organico che deve pure supplire agli psichiatri per i detenuti con problemi psichiatrici, o dei detenuti con problemi psichiatrici che avrebbero necessità di avere uno psichiatra per ventiquattrore e devono accettare di averlo per un’ora accontentandosi per le altre ventitré, appunto, del poliziotto.

Insomma: un discorso lungo e pieno di casi limite, che si incrociano e vanno anche molto al di là del limite, un discorso che poi è approdato su questa strana categoria. Uomini e donne consegnati alla mitologia, alla letteratura dantesca, con una eterna condizione di mezzo, un purgatorio obbligato dall’ultranovantenne Codice Rocco che chiarì che le punizioni erano da pensare per gli uomini prima ancora che per i reati, definendo con piglio militaresco, all’articolo 108, “una speciale inclinazione al delitto, che trovi una sua causa nell’indole particolarmente malvagia del colpevole”.

Succede così che, alla fine della pena, il giudice possa valutare discrezionalmente la pericolosità del non più detenuto, scegliendo se piazzarlo o meno in un luogo di mezzo, fra libertà e reclusione, fino alla possibile o impossibile maturazione, alla compiuta o incompiuta redenzione che gli offra le chiavi del mondo o lo consegni per sempre al dimenticatoio. E il luogo di mezzo è un luogo preciso e sputato a una prigione, dove il tempo è identico a quello che scorre fra le mura del carcere: “casa lavoro”, lo chiamano, dove casa è l’eufemismo per antonomasia. Se sul volto, dentro le rughe d’espressione, nell’incavo fra fronte e naso, c’è nascosta l’ombra di un’indole violenta, anche se gli anni di detenzione ne hanno spazzato via l’essenza un giudice può coglierla ancora, e allora l’incubo del limbo può spalancarsi in forma di quel posto senza porte citato dalla morte nella pellicola di Joe Black.

Di legiferare, su questo, non se ne parla: qualche intervento in questi anni, sì, ma nella sostanza da quasi un secolo il destino non cambia per chi ha quell’ombra di violenza in faccia. “Noi lo abbiamo visto a Barcellona Pozzo di Gotto, dove per questa gente il lavoro che dovrebbe esserci non c’è: anche se per la legge non è così, sono ancora detenuti”. Sabrina si arrabbia quando parla di carceri e di condizioni non umane per chi ha avuto ed ha a che fare col sistema italiano, e sulla scorta delle sue parole vengo costantemente investito dalla sensazione di vivere in un mondo parallelo. Un posto con le porte, dove risuonano i versi de La città vecchia: “se non sono gigli son pur sempre figli, vittime di questo mondo”.

Seba Ambra -ilmegafono.org