Siamo nel 1983. È inverno, fa relativamente freddo ma l’umidità lo fa percepire più forte e intenso. È il 26 febbraio, quando una rivolta popolare trasversale, nata dall’iniziativa di un comitato di giovani, nel comune di Casteldaccia, in provincia di Palermo, fa scendere in strada giovani, giovanissimi, laici, religiosi, uomini e donne appartenenti a diverse estrazioni sociali e politiche. È il 26 febbraio di quarant’anni fa quando una storica marcia antimafia porta in corteo, a braccetto, da Bagheria a Casteldaccia, chiese locali (la Chiesa di Roma era ancora ben lontana dall’anatema e dalla scomunica lanciati ai mafiosi dalla Valle dei Templi di Agrigento, molti anni dopo, da Giovanni Paolo II), movimento sindacale, operai, studenti provenienti da Palermo e da altri paesi della provincia. Tutti insieme, più di diecimila persone per dire NO alla mafia lungo la cosiddetta “Strada del Vallone”, l’arteria utilizzata come via di fuga dai killer di cosa nostra e dai latitanti mafiosi.

La marcia ebbe una grande eco a livello nazionale, grazie alla massiccia partecipazione di popolo. La gente era stanca. Cominciava quell’insofferenza nei confronti della mafia che stava portando e che avrebbe portato la Sicilia e tutto il Paese, negli anni a venire, verso il baratro. Anni di guerre di mafia a Palermo e in altre città siciliane. Palermo, la fenicia Zyz (che significa fiore), era diventata il centro della morte e del sangue. Nella sola estate del 1982, 21 uomini appartenenti a cosa nostra erano stati uccisi in soli 14 giorni. Un massacro, una mattanza che il quotidiano L’Ora e le fotografie di Letizia Battaglia denunciavano tutti i giorni.

Nel 1982 erano stati anche assassinati, per mano dei killer di cosa nostra, nell’ordine: il maresciallo dei carabinieri di Catania, Alfredo Agosta, il segretario del PCI siciliano Pio La Torre, insieme a Rosario Di Salvo, il suo autista, l’imprenditore Gennaro Musella, il vice brigadiere di polizia Antonino Burrafato, il medico legale Paolo Giaccone, l’imprenditore Vincenzo Spinelli, che si era ribellato al pizzo, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro, l’agente Domenico Russo, l’agente di polizia Calogero Zucchetto. Il 26 gennaio 1983, un mese prima della marcia, era stato assassinato il magistrato Giangiacomo Ciaccio Montalto. A ripensare a quei giorni ci si chiede: com’è possibile aver sopportato tutto questo? Com’è possibile che lo Stato sia rimasto inerme di fronte a questa tragedia nazionale? Una piccola ma significativa reazione si ebbe con quella marcia antimafiosa che, quarant’anni dopo, verrà rievocata il 24 febbraio 2023, portando in piazza, oggi come allora, studenti, semplici cittadini, sindacalisti, sacerdoti, associazioni, operai.

Tutti insieme per testimoniare la propria coscienza civile antimafiosa, il proprio disgusto verso le mafie e la speranza di un futuro libero dalle criminalità organizzate. Il Centro Studi Pio La Torre, in questi quarant’anni ha raccolto una ricca documentazione per dare a tutti la possibilità di esercitare la memoria, la nostra più preziosa amica. Quella memoria che, come scrive il drammaturgo Alessandro Ghebreigziabiher, è “la buca in cui non ricadere e la strada sbagliata da non imboccare la seconda volta. Posso essere la vostra più temibile nemica. Perché sono l’occhio che fotografa la vostra vergogna nel buio di una stanza”. Tantissimi i comuni che hanno aderito alla marcia, da Palermo e Bagheria, da Palma di Montechiaro a Canicattì (la città dei giudici Livatino e Saetta), da tutte le sigle sindacali alle forze dell’ordine, da tantissime scuole a varie arcidiocesi, dalla Fondazione Falcone alle università siciliane, dai vari movimenti antimafia alle associazioni di ogni ordine e categoria.

Tutti uniti per marciare e per ricordare quello che, con coraggio, accadde 40 anni fa, quella marcia nel “triangolo della morte” , quella prima mobilitazione contro le cosche mafiose. Quel triangolo della morte è oggi intitolato “Via della marcia antimafia 26 febbraio 1983”. Come scrive sul suo sito il Centro Studi Pio La Torre, “oggi le nuove mafie sparano di meno, ma corrompono di più, si infiltrano, anche a livello transnazionale, con maggiore elasticità e professionalità nel tessuto produttivo riciclando i proventi dei loro traffici illeciti, vecchi e nuovi, e nelle parti consenzienti delle istituzioni, della politica e dell’economia. La presenza delle nuove mafie ritarda, come hanno fatto quelle antiche, la crescita del paese sottraendogli ricchezza e democrazia. La reazione positiva dell’opinione pubblica, soprattutto giovanile, all’arresto dell’ultimo latitante corresponsabile delle stragi degli anni Novanta e degli assassinii della seconda guerra di mafia dimostra quanto siano aborrite le mafie. L’arresto di Messina Denaro illumina la trasformazione di uno stragista in un moderno imprenditore del turismo, dell’eolico, delle transazioni finanziarie transnazionali, supponiamo, grazie alle protezioni politiche, alle complicità istituzionali e sociali”.

La marcia antimafiosa di venerdì 24 febbraio coincide con il triste anniversario di un anno di guerra della Russia contro l’Ucraina, che minaccia di degenerare in guerra nucleare. Coincide, aggiunge ancora il Centro Studi Pio La Torre, pure con il settantottesimo dell’ultimo treno pieno di ebrei e antifascisti spedito dai fascisti da Trieste al campo di concentramento di Bergen- Belsen. Coincide inoltre con la giornata contro tutte le guerre invocata anche da papa Francesco. Sarà quindi, una Marcia antimafia e pacifista. Questa marcia del 24 febbraio sarà un viaggio, un viaggio nel tempo e dentro ciascuno di noi (anche per chi sarà lì solo con il pensiero o con il cuore); sarà un viaggio per trovarsi e per ri-trovarsi. Per dirla con le parole di Gesualdo Bufalino: “C’è chi viaggia per perdersi, c’è chi viaggia per trovarsi”.

Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org