La storia di Mauro Rostagno è la storia di un intero Paese. Perché quel che è accaduto a questo coraggioso intellettuale italiano è simbolico. Drammaticamente simbolico. È una storia di lotte, di sogni, di speranze, di solidarietà e di schiena dritta, ma anche di violenza, morte, ingiustizia. E contiene tutto il meglio e il peggio di questa nazione, scorrendo tra le linee di un tempo che non smette di trascinare, da un lato, vicende di eroi civili, di uomini illuminati e onesti e, dall’altro, quelle di personaggi oscuri, mafiosi, massoni e complici istituzionali. È quello che succede ancora oggi a Trapani, dove le denunce che faceva Mauro Rostagno, con il suo giornalismo etico, nelle sue trasmissioni sull’emittente RTC, sono ancora valide.

L’intreccio di mafia e poteri oscuri, il perverso incontro tra quei poteri, dentro le stanze più segrete della democrazia, tutto ciò è tangibile, presente, ancora fortemente vivo a Trapani, in Sicilia e non solo. Rostagno lo sapeva e non aveva paura di tacere. Lui che era un intellettuale che viveva l’inquietudine dei giusti e che aveva vissuto esperienze importanti, ma soprattutto aveva una visione del mondo chiara e per essa aveva sempre lottato.

Si era ritrovato a Palermo e poi a Trapani, dove aveva fondato la sua comunità “Saman”, luogo di meditazione, di costruzione umana, di solidarietà, ma anche di recupero di soggetti più deboli, come i tossicodipendenti, in un periodo storico nel quale la droga era tragicamente visibile, devastava corpi, anime giovani, famiglie, mietendo vittime in ogni angolo di qualsiasi città, dalle metropoli alle province, ai borghi più sperduti. Proprio davanti a quella comunità, a Lenzi, vicino Valderice, il 26 settembre del 1988, Mauro Rostagno viene ucciso. L’ordine arriva direttamente dal boss di Castelvetrano e rappresentante di cosa nostra della provincia trapanese, Francesco Messina Denaro, morto nel 1998, padre dell’attuale boss latitante Matteo.

Fu don Ciccio a ordinare a Vincenzo Virga, capomafia trapanese, di uccidere Rostagno. E Virga si affidò al killer di fiducia, Vito Mazzara, che si occupò di eseguire il delitto insieme ad altri sicari. Sono passati 29 anni da allora e le cose che Rostagno denunciava sono ancora più evidenti, ancora più tangibili, così come è evidente che sia stato ucciso dalla mafia e da chi con quella mafia andava a braccetto. Al di là delle sentenze di condanna, questa è una certezza. A maggior ragione se si scorre il percorso delle indagini e dei processi sul caso Rostagno.

Ecco dove questa storia diventa ancora più drammatica, ancora più simbolica. Non una storia rara in Italia, ma sicuramente quella che più di tutte è divenuta l’esempio di come sia difficile che giustizia e verità vadano di pari passo in questo Paese, soprattutto quando di mezzo ci sono mafia, politica, affari. I famosi poteri forti, in questa vicenda, sono talmente nudi, talmente scoperti che risulta impossibile non vederli. Basta pensare ai depistaggi terribili di cui è stato oggetto il caso Rostagno. “Errori”, false testimonianze, ipotesi balzane, accuse ignobili contro i compagni di Lotta Continua, contro la comunità Saman, contro gli amici di sempre di Rostagno, perfino contro la moglie Chicca.

Un gioco sporco a cui si sono prestati carabinieri, magistrati, politici e anche, più o meno consapevolmente, molti giornalisti, compresi alcuni oggi famosi che si presentano al popolo come acuti e infallibili moralizzatori. Un gioco che ha avuto l’effetto di depistare, di ritardare una verità che era lampante e che le carte oggi mostrano essere inoppugnabile. Rostagno è stato ucciso per mano mafiosa. Lo dice una sentenza di condanna in primo grado all’ergastolo per il boss Vincenzo Virga e per il killer Vito Mazzara. Una verità arrivata giuridicamente dopo 26 anni e purtroppo, a 29 anni di distanza dall’omicidio, non ancora definitiva, visto che si attende la sentenza di appello (entro la fine di quest’anno).

Una giustizia monca, perché nel frattempo Francesco Messina Denaro è morto, impunito per quanto fatto a Rostagno, e perché mancano gli altri coinvolti nell’assassinio, non solo gli altri sicari del gruppo di fuoco di Mazzara, ma anche i complici, i corresponsabili, le spalle istituzionali, economiche, massoniche. Tutti coloro i quali avevano timore delle inchieste a cui Mauro Rostagno stava lavorando e della verità delle sue denunce in un territorio completamente compromesso. Un territorio, quello trapanese, che rimane ancora oggi luogo di incontro, di permeazione reciproca, tra mafia e massoneria.

Come scrive e denuncia spesso un altro giornalista, Rino Giacalone, il quale, nel ricordare Mauro Rostagno (leggi qui), descrive oggi una realtà simile a quella di cui parlava il coraggioso collega, realtà nella quale esistevano pochi magistrati e investigatori a occuparsi di mafia e pochi cronisti a raccontare le indagini. Indagini che, per troppi anni, hanno spesso narrato una storia diversa, lontana dalla verità e da quell’obbligo di giustizia che le istituzioni e che noi tutti, come Paese, dovremmo avere nei confronti di chi ci offre il coraggio della lotta e della denuncia e la passione per la libertà da ogni forma di inquinamento del potere e della vita democratica. Ecco perché la storia di Rostagno è simbolica, terribilmente. Ed è per questo che non solo non va dimenticata, ma va studiata, analizzata, scolpita nella memoria di ciascuno di noi.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org