Lo scrittore argentino Horacio Verbitsky scrive che “giornalismo è diffondere ciò che qualcuno non vuole si sappia; il resto è propaganda. Il suo compito è additare ciò che è nascosto, dare testimonianza e, pertanto, essere molesto”. Antonio Russo, abruzzese, classe 1960, fu molto molesto, visto che, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2000, venne ucciso e il suo cadavere ritrovato vicino a Tbilisi, in Georgia. In un Paese come il nostro, in cui l’informazione militante è spesso la zona di conforto e di agio dei cultori della falsificazione, questo scrupolosissimo e meticoloso “irregolare” della professione (non si iscrisse mai all’Ordine dei giornalisti) era invece un impareggiabile guastatore delle rappresentazioni di comodo, un uomo “molesto” appunto. Le sue inchieste e le sue corrispondenze per Radio Radicale sulla guerra in Cecenia non passavano inosservate.

Fu ammazzato dopo che si seppe che era venuto in possesso di una videocassetta, con le prove delle violenze e torture delle truppe russe contro la popolazione civile cecena. Ne aveva parlato, due giorni prima della morte, al telefono con la madre, disperandosi per l’orrore che le immagini suscitavano. Era afflitto. Dal 1995 in poi aveva seguito per Radio Radicale le varie crisi che colpivano i Balcani e l’Est del continente europeo. Documentava le conseguenze delle guerre: andava a casa dei civili e condivideva i loro drammi personali, sociali e politici. In Kosovo fu l’unico cronista italiano rimasto per dare voce al massacro in atto, dopo che, il 24 marzo 1999, con l’inizio dei bombardamenti della Nato contro la Serbia guidata da Milosevic, il governo di Belgrado caldeggiò il ritiro di tutte le componenti internazionali. Lui rimase al suo posto.

Antonio Russo aveva raccontato altri conflitti, in Algeria, in Ruanda, a Cipro, in Bosnia. In Cecenia aveva fatto conoscere fatti e violenze nascosti dai media russi, ma anche dalla maggior parte degli organi di informazione occidentale. “Devo sottolineare un fatto – racconta, ad esempio, nel radio-collegamento del 28 luglio 2000 – cioè che, rientrato qui a Tbilisi dopo l’ultima missione di circa tre mesi fa, gli amici ceceni mi hanno immediatamente rintracciato. Ormai si è instaurato un rapporto di amicizia e anche di fiducia, forse per il modo con cui noi (di Radio Radicale) cerchiamo di lavorare”. “Fra i vari silenzi – dice successivamente – c’è quello dei profughi e delle persone che non sono potute stare più in Cecenia e sono diasporizzate in Daghestan, Inguscezia, Georgia. Io sto seguendo personalmente un caso di un ragazzo malato di tubercolosi, fortunatamente all’inizio, del quale me ne sono preso carico”. Era un uomo buono, Antonio Russo.

Ha seguito il conflitto in Cecenia dall’inizio, nell’agosto del 1999. Conflitto combattuto dall’esercito della Federazione Russa per riottenere il controllo dei territori conquistati dai separatisti ceceni. Chissà come avrebbe raccontato, oggi, il conflitto in Ucraina, cosa avrebbe fatto, come si sarebbe comportato. “Sappiamo però – dice Alessio Falconio, direttore di Radio Radicale – come ha raccontato per Radio Radicale la guerra che sempre la Russia del dittatore Vladimir Putin ha condotto oltre 20 anni fa contro il popolo ceceno. Per questo la sua uccisione, per mano di chi non voleva che continuasse ad illuminare quel massacro, ci interroga tutti sul perché l’Italia e l’Unione Europa abbiano nel frattempo continuato a considerare il regime putiniano un interlocutore affidabile, al punto da farne il nostro principale fornitore di gas e, prima ancora, un potenziale partner strategico militare e politico”.

“Le uccisioni di Antonio Russo nel 2000 e 6 anni dopo di Anna Politkovskaja, – continua Falconio – ai cui funerali l’unico politico occidentale presente fu Marco Pannella, ci interrogano sul perché negli anni a seguire non si sia fatto nulla affinché ci fosse anche un solo briciolo di verità giudiziaria sull’omicidio di un giornalista italiano, di un radicale-giornalista. Se le corrispondenze e l’uccisione di Antonio Russo ci hanno fatto capire cosa era già allora e cosa sarebbe diventata la Russia di Vladimir Putin, l’inazione che ne è seguita ci dice come siamo stati noi, Italia, Nato e UE, almeno fino a pochi mesi fa: immobili di fronte al massacro dei ceceni, immobili di fronte all’invasione russa della Georgia, immobili di fronte all’invasione e all’annessione russa della Crimea”. 

“In battaglia con il taccuino. Così muoiono i soldati della notizia”, pubblicò il quotidiano La Stampa, qualche anno fa. Così è morto probabilmente, massacrato e torturato, Antonio Russo, con il suo taccuino tra le mani. Il suo corpo venne ritrovato, con segni di tortura appunto, ai bordi di una stradina di campagna a 25 km da Tbilisi. La sua abitazione, dopo l’omicidio, fu ritrovata ripulita di tutto: computer, telefono, videocamera e qualunque tipo di materiale e documentazione. Le indagini della procura di Roma e della Digos, supportate anche da fonti del quotidiano The Observer, dell’Ansa e del Corriere della Sera, collegarono l’omicidio di Russo con le sue scoperte giornalistiche e per un presunto dossier sulle vere origini di Vladimir Putin. Aveva infatti cominciato a trasmettere in Italia notizie circa il conflitto, e aveva parlato di una videocassetta contenente torture e violenze dell’esercito russo ai danni della popolazione cecena.

Secondo alcuni suoi conoscenti, Russo aveva raccolto prove dell’utilizzo di armi illegali contro bambini ceceni, con pesanti accuse di responsabilità del governo di Putin. Era molto attento all’infanzia, non sono rare sue fotografie, in zone di guerra, abbracciato ai bambini, quasi a volerli proteggere tutti. Sulla sua storia è uscito nel 2004 un film, “Cecenia”, che non è mai stato distribuito. Anche in questo non è stato un uomo fortunato: per essere riconosciuto aveva dovuto morire. “La sua morte è la sua ultima notizia”, disse Marco Pannella al suo funerale, denunciando il coinvolgimento dei servizi russi, cosa di cui nessuna istituzione italiana ha mai chiesto conto a Mosca. Antonio Russo, attraverso le parole, parole scritte e parole pronunciate ai microfoni di Radio Radicale, trasformava la sostanza delle cose, degli eventi, riportandoli alla realtà effettiva, cruda.

Proprio come scriveva Elio Vittorini: “È in ogni uomo attendersi che forse la parola, una parola, possa trasformare la sostanza di una cosa. Ed è nello scrittore di crederlo con assiduità e fermezza. È ormai nel nostro mestiere, il nostro compito. È fede in una magia: che un aggettivo possa giungere dove non giunse, cercando la verità, la ragione; o che un avverbio possa recuperare il segreto che si è sottratto ad ogni indagine”.

Vincenzo Lalomia – ilmegafono.org