Negli ultimi giorni in provincia di Agrigento si sono susseguiti diversi episodi di cronaca che hanno fornito una peculiare immagine del clima sociale in quella zona. Si è andata delineando quella che è la mentalità dominante nelle file della criminalità organizzata agrigentina. Una mentalità che sembra essere sopravvissuta, illesa, ai decenni di lotte e conquiste (giuridiche e sociali) dell’antimafia e che continua ad attribuire ai boss un’importanza elevatissima, generando una sorta di egemonia fondata su un potere quasi sovrannaturale. Accade così che delle telecamere di sorveglianza dei Ros immortalino una scena che sembra uscire da una delle tante, incredibilmente popolari, fiction su cosa nostra: un ladro che si inginocchia al cospetto del boss della zona implorando il perdono, per sé e per la propria famiglia, per un furto “non autorizzato” ad un bar presumibilmente “protetto”.

Un esempio molto eloquente del potere assoluto che, nell’ambiente criminale di quella zona, viene ancora riconosciuto a determinati “valori” e ruoli. Un episodio tutt’altro che isolato. Sempre nell’ambito della medesima inchiesta dei carabinieri, infatti, si è appreso di una conversazione tra un boss ed il proprio legale. Il capomafia, nel corso del colloquio, avrebbe spiegato all’avvocato, avvalendosi di un discorso metaforico incentrato sulla coltivazione dei carciofi, l’importanza della mafia, in termini di contrasto alla microcriminalità. Cosa nostra, secondo quanto spiegato dal boss, darebbe quel controllo, quella ragionevolezza necessari perché le cose funzionino. “La società da noi – avrebbe detto il mafioso – è una società difficile, c’è da scappare dalla Sicilia, io non lo so come la gente resiste”. Un ulteriore esempio di questa mentalità arriva da una vicenda che coinvolge gli stiddari agrigentini (gruppo di mafiosi fuoriusciti da cosa nostra) e la mancata riscossione da parte loro del racket ai danni di un sensale della coltivazione dell’uva.

Sembrerebbe che l’uomo avrebbe giustificato la propria incapacità a versare le somme dovute ai malviventi con l’aver contratto il coronavirus e che il boss, venendo a sapere di queste giustificazioni a suo giudizio insufficienti, avrebbe risposto orgoglioso: “Ancora deve arrivare l’altro virus, per quel virus non ce n’è, non ci possono né vaccini e né niente”. Quello che emerge è un quadro un po’ truce, rozzo, un contesto criminale ancora fortemente permeato dalla paura e dal rispetto per certe figure considerate non solo onnipotenti ma anche preziose, un contesto che sembra fermo al secolo scorso, in cui i boss proclamano con orgoglio la propria pericolosità e la propria utilità.

Una mentalità che è necessario scardinare perché rischia di contaminare la figura di una zona pittoresca, dai meravigliosi paesaggi, con un’importantissima eredità storica e culturale, che ha dato i natali a personaggi del calibro di Sciascia e Camilleri. Quest’ultimo parlava così a proposito dei siciliani: “Abbiamo il sangue di tredici dominazioni. L’intelligenza e la ricchezza dei bastardi, la loro vivacità e arguzia”. Ciò che ci manca, spesso, è un po’ di buon senso ed un serio percorso di educazione alla legalità in alcuni contesti, in modo da fornire dei veri modelli di cui avere stima e dei veri comportamenti di cui essere orgogliosi. Un percorso di consapevolezza che ci aiuti a sconfiggere il più grave male che ammorba la nostra meravigliosa isola: la mafia.

Anna Serrapelle-ilmegafono.org