Un tempo fu l’industria la grande promessa del progresso generalizzato, la grande artefice della crescita occupazionale che avrebbe trasformato il mondo del lavoro e creato benessere all’interno di società con economie ancora rurali. Una promessa per la quale sono state messe da parte la tutela dell’ambiente e quella della salute dei cittadini delle aree industriali. Un processo che, chi vive in città segnate dalla presenza delle industrie pesanti, ha conosciuto bene. Un processo passato da pochi decenni di benessere economico e poi, lentamente, avviatosi a un costante declino, che ha lasciato dietro di sé la scia tremenda del suo impatto sui luoghi. Se la situazione dell’industria ristagna oggi tra crisi cicliche e progetti di una transizione ecologica che viene spostata sempre in avanti, c’è un settore che, in alcune zone, Sicilia in primis, sta invece galoppando. Parliamo del turismo, la nuova miniera d’oro sia per le imprese e i privati che per gli amministratori. Soldi per i primi, consenso, interessi e maquillage politico per i secondi.

L’era del turismo è già cominciata da qualche anno, ma in Sicilia ha assunto dimensioni che oggi, per mentalità e impatto, rischiano di essere catastrofiche. Non certo per colpa di chi, ammirato dalla bellezza dei luoghi, decide di venire a vederli da vicino, di scoprire i tesori dell’isola, il suo immenso patrimonio culturale, paesaggistico, naturale. Non è certo ai turisti che bisogna attribuire la colpa dei danni che il turismo di massa sta già provocando, non è a loro che bisogna rivolgere il proprio indice accusatore. I responsabili sono molto più in alto, sono innanzitutto le istituzioni regionali e comunali, sono gli enti di tutela, sono tutti coloro i quali rilasciano autorizzazioni senza curarsi dei rischi inestimabili ai quali condannano il futuro di una terra e dei suoi beni. Sono assessori e sindaci, amministrazioni comunali, presidenti di Regione, ma sono anche imprenditori, impresari, società che, per il loro obiettivo, passano sopra a qualsiasi cura, a qualsiasi attenzione alla storia di un bene o di un luogo per cui chiedono (e purtroppo ottengono) concessioni e autorizzazioni.

Abbiamo già parlato del Teatro Greco di Siracusa, della scellerata decisione di trasformarlo in un luogo di intrattenimento di massa, in un’arena per concerti, infischiandosene dei danni irreparabili che la pietra potrà subire e, con essa, la tenuta e la salute dell’intero sito. Nelle ultime settimane, nella terra di Colapesce, si è aggiunto un altro caso assurdo, come quello del gigantesco solarium di ferro che ha deturpato gli scogli di Levanzo, deliziosa isoletta dell’arcipelago delle Egadi, facente parte dell’Area Marina Protetta delle Egadi, una delle più estese d’Europa. Un solarium di pertinenza della Pensione dei Fenici, struttura alberghiera di proprietà della Ma.Ce.Tra. Spa, di cui è amministratore Giuseppe Maurici, ex deputato regionale trapanese di Forza Italia. Uno sfregio a una scogliera in un’area protetta, in un ecosistema di grande valore paesaggistico e ambientale.

Uno scempio dalla superficie scoperta di circa 800 mq che è stato incredibilmente autorizzato dal demanio marittimo e che ha ottenuto, successivamente, l’ok anche dalla Sovrintendenza dei beni culturali, dall’Arpa, dalla Capitaneria e dal Comune di Favignana, che ha disertato la conferenza dei servizi, favorendo l’ingranaggio pericoloso che in questa terra anima il principio del silenzio-assenso. Tutto senza che mai venisse presa in considerazione la contrarietà, espressa nel 2018 dal consiglio comunale di Favignana e dall’allora sindaco, contro l’autorizzazione di nuove concessioni demaniali anche nell’isola di Levanzo. Un iter discutibile e clamoroso a favore di un ecomostro il cui cantiere è stato adesso sequestrato dalla Capitaneria di Porto di Trapani.

Chissà come mai in Sicilia si arriva sempre dopo, quando è necessario sequestrare e poi attendere anni, dieci o venti o anche di più per la demolizione (quando avviene) e per riparare lo sfregio. Chissà perché non si interviene mai prima, quando certe idee perverse di svendita e danneggiamento del patrimonio ambientale e culturale vengono partorite. Ecco cosa sta accadendo in questa Sicilia invasa dal rito orgiastico del turismo di massa e da una politica che in questa nuova industria si è tuffata mani e piedi per raccattare consensi e costruire gruppi di interesse. Accade che si sfrutta l’irresponsabile semplificazione delle norme autorizzative (vedi legge Franceschini), accade che si depotenziano le sovrintendenze, che si relegano le funzioni degli enti parco a semplici pareri consultivi, che si aggirano le leggi a tutela dei beni culturali e ambientali, che si deregolamentano le occupazioni di suolo pubblico, come avvenuto ad esempio a Siracusa, dove il centro storico, l’isola di Ortigia, è stato invaso dai dehors, che il sindaco uscente sogna ora di chiudere con le vetrate per spingere il turismo anche in inverno. Accade che luoghi pubblici, beni culturali, monumenti vengano gestiti come fossero privati e non della collettività, senza la minima cura per tutto ciò che di inestimabile rappresentano per la storia, per l’identità culturale e storica di una comunità.

Identità che il turismo di massa sta disgregando, spogliando i centri storici, trasformandoli in un’orda di case vacanze, strutture ricettive di ogni genere e livello, ristoranti, negozi di souvenir, apicalessini e mezzi di trasporto di ogni sorta. Una situazione che sta facendo lievitare i prezzi a dismisura, con effetti nefasti anche sulle comunità locali, sui prezzi delle case, degli affitti, con ripercussioni sociali pesanti sui residenti, soprattutto quelli che non hanno abbastanza risorse economiche (e rispetto ai quali latitano i meccanismi di tutela sociale). Il turismo, così concepito, non ha nulla di positivo, anzi diventa sempre più elitario sia per quel che riguarda il fruitore sia per quel che riguarda l’operatore, l’impresa. E inoltre non genera un benessere diffuso, perché il lavoro che offre è soltanto stagionale e non garantisce occupazione stabile, elemento che comunque non giustificherebbe ugualmente la distruzione dei beni culturali o delle coste di pregio o il collasso di città che, strutturalmente, non sono pronte a gestire (in modo regolare, lecito e con qualità) numeri sempre più elevati di visitatori.

Un concetto che è dimostrabile con quanto è avvenuto e sta avvenendo anche in località storicamente molto celebri, come Gallipoli o le Cinque Terre. Nessun luogo può investire tutto sul turismo, se questo diventa poi un flusso incontrollato e senza regole. A maggior ragione, turismo o meno, non è possibile che la retorica del luogo chic, l’ossessione del post con la foto del bicchiere al tavolino di strutture costruite in riserve o a ridosso di aree protette o su scogliere di pregio (e ce ne sono tante), l’esaltazione del divertimento prima di tutto, del profitto prima della tutela, siano ormai al centro di una visione che più che politica è commerciale e di marketing. E non è con il marketing che si governano i territori. Né con il provincialismo e con il servilismo verso gli interessi privati.

Ancor meno con l’arroganza di chi, invece di confrontarsi con chi la pensa diversamente, si spende in etichette infantili, definendo globalmente “i signori del No” quelli che cercano solo di tutelare o regolamentare l’uso di un bene che appartiene non a una giunta comunale o regionale ma all’intera umanità. Perché se il motto “meglio morire di fumo che di fame” ha messo a nudo, nel tempo, la funesta drammaticità della sua logica, anche quello “meglio morire senza identità culturale che senza soldi” non sembra destinato ad avere maggiore successo.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org