Quelli che ci conducono verso la fine di luglio, sono giorni pieni di memoria. Giorni nei quali abbiamo ricordato alcune ricorrenze tragiche per la storia di questo Paese, dalla strage di via D’Amelio del 1992 ai fatti di Genova del 2001. Ferite profonde che non si sono mai rimarginate. Ferite aperte, perché è ancora lontana la verità, una verità che richiede molto di più dei nomi e dei volti degli esecutori, richiede e pretende quel senso profondo di giustizia che si avrà solo quando avremo certezza (se mai la avremo) dei mandanti politici. Se sulla strage di via D’Amelio qualche luce si fa spazio, nonostante depistaggi, errori, resistenze, sul massacro di Genova non sembra esserci invece alcuno spiraglio. Tutto viene ancora presentato solo come un eccesso delle forze di polizia, uno scontro tra forze dell’ordine e manifestanti, in un clima di tensione che ha fatto emergere i vizi peggiori di certi dirigenti in divisa.

Eppure sappiamo tutti che non è solo quello, che la violenza della Diaz e di Bolzaneto, così come la pallottola sulla testa di Carlo Giuliani, sono soltanto l’appendice di un disegno più ampio che ha registi raffinati, comprende manovre, strategie studiate, uomini in giacca e cravatta seduti in cabina di comando. Registi e strateghi del terrore che probabilmente non saranno mai puniti per quello che hanno fatto ai manifestanti, alle donne e agli uomini, alle ragazze e ai ragazzi che a Genova marciavano pacificamente per chiedere un mondo migliore. Rivendicazioni legittime, che denunciavano la necessità di cambiare rotta, di modificare un sistema economico che stava minacciando il futuro del pianeta, dal punto vista ambientale, sociale, dei diritti. Un grido di allarme che veniva dall’unione di esperienze diverse, dallo studio, dalla circolazione di idee valide su modelli di sviluppo sostenibile che mettessero al centro la tutela dell’ambiente e i diritti delle persone, delle lavoratrici e dei lavoratori, eliminando le disuguaglianze, i conflitti, l’emarginazione, l’oppressione.

Un grido pacifico in nome di un pacifismo militante sbattuto in faccia a un mondo che, già a quel tempo, gettava le basi per una strategia bellica che, pochi mesi dopo, con l’11 settembre, avrebbe trovato il pretesto per la sua concretizzazione. Era il grido di una generazione che tornava a parlare, a farsi sentire, a impegnarsi fattivamente, in ogni città, in tanti Paesi del mondo. Un movimento mondiale, composito, pulito, che alla politica mostrava temi, contenuti, alternative. Era il ritorno di una gioventù sensibile che contraddiceva la retorica del disimpegno e rimandava al mittente le accuse di essere una generazione disinteressata, accuse spesso condite da quel costante, insopportabile paragone con le lotte dei genitori.

Genova era il teatro nel quale le tante voci sarebbero divenute un coro, l’occasione per ribadire che era il momento di cambiare le cose e che bisognava ascoltare chi aveva tutto il diritto di scegliersi la strada per il futuro. Un coro di ragazze e ragazzi sul quale la politica sperimentava già la ricetta della flessibilità che avrebbe prodotto una macelleria sociale, tra precariato, disoccupazione, disuguaglianza all’accesso nel mercato del lavoro, umiliazione del merito. Tutto quello che ancora oggi, quella generazione e le successive vivono sulla propria pelle in questo Paese, almeno chi ha scelto di restare, di non unirsi alla moltitudine andata via, all’estero, in luoghi in cui poter costruire un progetto di vita. Genova era la rivolta pacifica della generazione dell’impegno, quella che qualcuno ha sbattuto contro un muro, ha trascinato per terra, ha riempito di lividi e sangue. Una generazione che sognava e si sentiva viva e che è stata trasformata in sfigata, impaurita e a tratti perfino rassegnata.

Ecco perché la narrazione della violenza della polizia nervosa non basta. Genova è stato un massacro organizzato, una macelleria strategica. Ci doveva scappare il morto, bisognava provare a caricarlo sulla coscienza dei manifestanti, bisognava dipingere come violenti migliaia di giovani che marciavano con le mani alzate o strette tra loro. Contro quei giovani si sono studiate le soluzioni più subdole, per settimane e settimane. Bisognava colpirli e colpevolizzarli. Creare zone rosse, creare gabbie di tensione senza vie di fuga, lanciare lacrimogeni e fare cariche su chi non reagiva, lasciando al contempo che i black blok, infiltrati dentro i cortei, potessero staccarsi e iniziare la devastazione. Perché bisognava rendere impopolari i movimenti pacifici, rendere impopolare l’immagine di quei giovani che chiedevano solo un futuro migliore e osavano criticare il sistema in maniera concreta e argomentata.

Dopodiché dovevano affibbiare a loro la responsabilità di un omicidio, di un morto ammazzato (“lo hai ucciso con il tuo sasso”, urlava un bugiardo, che recitava sotto casco e divisa). Tutto per giustificare una reazione violentissima, con massacri e torture da vecchio regime sudamericano. In Italia, subito dopo l’inizio del nuovo millennio. Bisognava scorticare la pelle di una generazione, intimorirla pesantemente, assicurarsi che quelle piazze si sarebbero svuotate o comunque sguarnite di molto. Bisognava fermare il movimento di giovani che non smetteva di manifestare. Bisognava cacciare il sangue nella loro gola, fino a rendere difficile il loro respiro, fino a far sentire il senso opprimente del soffocamento. Bisognava togliere la voce a quei dannati giovani. Perché mettevano a rischio il consenso e perché avevano la pretesa di avere una dimensione e una visione internazionali.

L’ultima esperienza di internazionalizzazione della lotta per i diritti fu quella. Dopo non c’è stato nulla. Le alternative proposte da quel movimento sono rimaste congelate, o meglio imprigionate nel sangue di Genova e dei mesi successivi. Il terrore di Stato ha vinto. I giovani hanno perso, anche se qualcuno ha continuato, a modo proprio, a lottare. Ma con molta più solitudine e meno efficacia. La verità è naufragata nel mancato accertamento delle responsabilità politiche, dei mandanti, dei complici. A Genova, nel mese di luglio, è finita un’epoca ed è abortito quel cambiamento che era possibile, sembrava possibile. I problemi denunciati da quelle ragazze e quei ragazzi sono ancora tutti lì, sono le distorsioni più acide di un sistema che continua a mostrare la sua violenza e le sue ingiustizie.

Se solo ci fosse stata una sinistra diversa, in Italia, se solo ci fossero stato un partito e un leader o un gruppo dirigente capaci di mettersi accanto a chi rivendicava e di impedire la macelleria, forse oggi almeno questo Paese sarebbe migliore. Ma non c’è stato niente di tutto ciò. A Genova, quei giovani sono rimasti soli, circondati dal branco. Come il corpo di Carlo Giuliani, sul selciato di piazza Alimonda, circondato da chi aveva lavorato per quella scena e aveva premuto il grilletto contro di lui e i sogni di giustizia non di un ragazzo ma di una intera generazione.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org