Sicurezza. Una parola abusata da tempo. Un concetto violentato da una retorica che lo ha riempito di contenuti tragici e al contempo farseschi. Il decreto sicurezza bis è un oltraggio alla democrazia, perché si accanisce ancor di più sui disperati e sulla solidarietà, oltre a restringere ulteriormente gli spazi del dissenso. Un provvedimento autoritario, la cui portata di ingiustizia non è affatto ridotta dagli interventi prodotti su alcuni punti e dalle richieste di modifica del Quirinale. Si va sempre più verso uno Stato di polizia, nel quale però si esperisce una dimensione parallela della sicurezza, piena di percezioni distorte e lontanissima dalle urgenze reali.

Ma questo è il leitmotiv dell’attuale governo, che sollecita le paure della gente e poi le arma concretamente, scatenando l’odio verso l’altro e il disprezzo nei confronti degli ultimi. Il tutto farcito da una propaganda becera, utile a distrarre e nascondere la verità agli occhi di un popolo sempre più acritico. La sicurezza, dicevamo. Una parola data in pasto all’opinione pubblica, dopo essere stata confezionata e decorata da abili chef dell’informazione amica, da un esercito di giornalisti e opinionisti che non hanno più nemmeno il pudore di dissimulare, di fingere un minimo di rispetto per l’imparzialità e l’obiettività che il mestiere (e la deontologia) richiederebbero. In questa pastoia, il superfluo viene artatamente elevato a prioritario, lasciando cadere nella palude torbida della mistificazione ciò che invece è effettivo, reale, concreto.

Nella retorica sulla sicurezza, allora, non c’è spazio per la mafia, alla quale il governo non dedica alcuna azione di contrasto, ma alla quale indirettamente fornisce ghiotte occasioni, come nel caso della riforma del codice degli appalti e delle proposte scriteriate del ministro dell’Interno. E a proposito di quest’ultimo, è ormai evidente il suo ruolo di comando di un esecutivo che è totalmente asservito alla sua volontà, già da molto tempo prima della parziale legittimazione emersa dalle tornate elettorali susseguitesi durante un anno di governo. I 5 stelle paiono dei fedeli cagnolini arrotolati attorno alle caviglie del padrone. Quando ringhiano lo fanno per gioco: mostrano i canini e nel frattempo scodinzolano. Sono perdenti di successo. Prendono batoste elettorali ma godono ugualmente perché il loro padrone cresce e prospera.

In questo modo la ciotola resta sempre piena e la poltrona sempre più comoda. E non basta certo un colpo di vento, magari proveniente da qualche pala eolica, a rompere l’idillio. Perché l’onestà, nel Paese dei decreti sicurezza, per molti è un concetto elastico. Lo si può usare secondo convenienza. Se si vuole distruggere il lavoro umanitario delle ong o un modello virtuoso come quello di Riace, ci si spende subito, si prende posizione, si dicono cose false, persino quelle che nelle carte non ci sono, si ignorano indagini, archiviazioni, decisioni della Cassazione e si dà credito a quei magistrati che in quel caso si dice che “fanno il loro dovere”. Un dovere che però ha uno strano retrogusto politico, come nel caso di Riace, dove un nugolo di giudici ha assunto una decisione incomprensibile sul piano del diritto e del rispetto del principio di presunzione di innocenza.

Quando invece si vuole difendere la propria poltrona, allora i magistrati di colpo vengono considerati nemici da perseguire, mentre l’onestà diventa un fantasma, una fastidiosa citazione della memoria che è meglio cancellare, insieme ai cori, alle proteste eclatanti, ai vaffa day e agli slogan. Se il consigliere di un ministro alleato, ad esempio, viene arrestato per corruzione e per rapporti illeciti con un imprenditore ritenuto vicino al capo di cosa nostra, è molto meglio tacere o fare poco rumore. Perché ormai si è parte del potere e non si possono più percorrere le strade puriste delle adunate di protesta all’urlo di “onestà, onestà”. L’onestà, si è detto poc’anzi, per qualcuno è elastica. Pertanto, si rimane a bordo, senza chiedere le dimissioni di un ministro che già di recente ha assistito ai guai giudiziari del suo braccio destro, quel Siri che, sempre per quel concetto schizofrenico di onestà, si è trovato dentro la squadra del governo del presunto “cambiamento” nonostante una condanna per bancarotta.

Si rimane a bordo, accanto a un ministro accusato di sequestro di persona che è rimasto non giudicabile grazie ai battiti di coda festanti del fedele alleato, quello che diceva di odiare l’immunità e che invece ha scelto di usarla perché altrimenti si rischiava di tornare tutti a casa e perdere il posto e i privilegi. Chissà se faranno lo stesso, quando la richiesta di autorizzazione a procedere sul caso Sea Watch potrebbe riguardare direttamente i ministri del loro movimento. Probabilmente ripeteranno il rito, perché l’onestà non è qualcosa che può prevalere sul “contratto” di governo. Poco importa se al tavolo del consiglio dei ministri c’è chi si è salvato da un processo e si è circondato di uomini che sono finiti nel giogo della magistratura con accuse gravissime. Sia adesso che in passato, come ad esempio nel 2018, quando i rappresentanti in Sicilia del partito di Salvini vennero indagati per voto di scambio.

Insomma, se “la Lega è una vergogna”, come cantava il grande e indimenticabile Pino Daniele, c’è chi, come i 5 stelle, la vergogna e il pudore li hanno persi da molto tempo, mentre l’unica cosa che hanno mantenuto e nutrito è l’ipocrisia. Di tutti, anche di chi all’interno di questo movimento gioca a mostrarsi controcorrente fingendo di opporsi e di possedere una coscienza morale.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org